Palermo, 1979. A una settimana dalle politiche del 3-4 giugno nella sezione Togliatti del PCI c’era gran fermento. Nella calca di compagne e compagni che intervenivano si intravedeva un signore d’altri tempi con penna e taccuino in mano che prendeva appunti. Non era un signore qualsiasi: era niente di meno il Segretario Generale del più grande partito comunista d’Occidente.
Enrico Berlinguer aveva appena incassato una delle più grandi sconfitte della sua segreteria: il suo partito aveva perso 1 milione e mezzo di voti, la metà di quelli della grande avanzata del 1976. Tre anni di solidarietà nazionale a collaborare con i Governi Andreotti, “che garantisce di più gli USA“, come gli aveva confidato Moro prima di essere rapito, avevano logorato il partito e il suo segretario.
Il segretario si aspettava un risultato negativo, ma non così negativo. E allora decise di andare a vedere con i suoi occhi. “Non sono io che devo parlare stasera, sono qui per ascoltare. Dovete dirmi che cosa è successo“, si limitò a dire in apertura. Tra i vari interventi, una ragazza della Fgci sintetizzò quello che il segretario si sentì ripetere un po’ ovunque nei giorni seguenti: “L’alleanza con la Democrazia cristiana, che qui a Palermo ha nomi ben conosciuti, famigerati, ha spinto la gente a metterci nello stesso mazzo con loro”.
Il voto di oggi, la lezione di ieri
In quei giorni tanti chiedevano la testa di Berlinguer. A partire da Giorgio Napolitano e dai Miglioristi, i principali responsabili, tra l’altro, della “percezione sbagliata” della proposta del compromesso storico nelle classi popolari che votavano PCI. Eppure fu in quel tour fuori dagli stanchi riti di partito che Berlinguer andò perdendo quell’immagine di uomo triste e grigio cucitagli addosso da stampa e avversari interni e si avviò a diventare il leader più amato della storia repubblicana, amato soprattutto per la sua sincerità e le sue utopie.
Perché sono partito da un episodio vecchio di 42 anni? Perché basta rievocarlo per capire quanto abbiamo toccato il fondo a sinistra. Ieri, a scrutinio ancora in corso, i leader del Partito Democratico, nazionali e locali, festeggiavano “l’uscita dalla ZTL“, in particolare a Milano, dove il centrosinistra a guida Sala riconquista il Comune al primo turno e tutti i nove municipi, come dieci anni fa con Pisapia. Con un’affluenza, però, del 47,72%, contro il 67,56% del 2011.
Come si fa a essere felici di un risultato del genere? Certo, si può esultare per aver bloccato l’avanzata di un centrodestra sempre più neo-fascista, ma davvero non è prudente aspettare almeno un’analisi dei flussi elettorali per capire la “geografia” del voto? Sarà un po’ la deformazione professionale del sociologo (modesto allievo di Stefano Draghi, “il mago dei numeri di Botteghe Oscure“), sarà un po’ l’imprinting politico di Enrico Berlinguer, ma dalla mia “ossessione” per l’astensione, che a Milano sfiora il 56% persino nelle “Ztl”, al nulla cosmico e i caroselli per aver vinto ci potrà pur essere una via di mezzo, no?
Nel PCI era sufficiente una piccola flessione di voti e un lieve aumento dell’astensione per generare un’analisi del voto che durava giorni, che riportava il partito nei luoghi dove il calo era stato più visibile, perché l’obiettivo di quel partito “egemone” a sinistra era quello di capire e di recuperare. Il suo compito era l’elevamento culturale delle masse, dare loro cioè gli strumenti per uscire dalla subalternità alle classi dominanti.
Qui invece si festeggia a scrutinio ancora in corso come se l’astensione non fosse un dato drammatico, come se non fosse la spia della cattiva salute della nostra democrazia e dell’insufficienza della proposta politica attuale. Se l’importante è solo vincere, a che cosa serve allora la Sinistra?
Prima del partito, la cultura politica
Quando gli chiesero quale fosse la differenza tra Destra e Sinistra, Norberto Bobbio rispose: “il politico di sinistra deve essere in qualche modo ispirato da ideali, mentre il politico di destra basta che sia ispirato da interessi: ecco la differenza.”
Dopo 30 anni a ripetere come un mantra che erano finite le ideologie, quando in realtà aveva vinto quella capitalista che ha imposto una nuova normalità, un povero elettore che voglia votare si ritrova tra richiami identitari, tanto nobili quanto settari, e il partitone progressivamente svuotato di significato che quando va al governo si rende poco distinguibile dalla destra (per il neodeputato senese Enrico Letta la principale differenza che ha saputo elencare è quella sul Green Pass). Per dirla alla Saramago, “ogni volta che la Sinistra vince e va al governo, prepara la sua sconfitta, perché si appiattisce sui programmi della destra”.
Contro l’astensione oggi più che mai serve, prima ancora di un partito, una cultura della Sinistra aperta e moderna, che si liberi di quella mentalità ottusa da trinariciuti alla Guareschi e ricostruisca l’alfabeto ideale con cui rispondere a quella sete di giustizia che è maggioritaria tra quello che era il suo popolo naturale. Senza questa, i partiti finiscono per diventare meri comitati elettorali che si mobilitano per le elezioni e poi governano condizionati dai soliti interessi
La lezione di oggi
Il dato inconfutabile di queste elezioni è sicuramente uno, e cioè che fuori dal perimetro del centrosinistra non c’è vita. Il frazionismo a Sinistra non paga, e le elezioni di Milano lo certificano in maniera drammatica. Complice anche il fatto che bastavano poche centinaia di firme per candidarsi, anziché unirsi sotto il simbolo che tre anni fa portò a stento Basilio Rizzo in Consiglio Comunale, la sinistra anti-Sala sparisce dal consiglio e anche quella a favore (Milano Unita) racimola un misero 1,56% in coalizione.
L’argomentazione “stiamo fuori per dare un’alternativa agli elettori” viene smentita dal dato dell’astensione: la lista dei Verdi, ad esempio, si piazza terza col 5,11% dopo il PD (33,86%) e la lista civica del Sindaco (9,15%) proprio perché in coalizione, viceversa avrebbe seguito il medesimo destino della lista ambientalista a sostegno di Mariani (0,56%).
Spero che il voto di ieri non venga archiviato frettolosamente. Ignorare il dato politico dell’astensione sarebbe fare come Calenda che si sentiva già sindaco per il record di interazioni su Twitter. E’ vero, la partita sulla Lombardia è aperta. Ma se il centrosinistra non riesce a portare al voto nemmeno la maggioranza degli aventi diritto nel centro storico di Milano come pensa di vincere fra due anni nelle valli che da sempre votano leghista?
Non sprechiamo anche quest’occasione e iniziamo già da oggi a impostare quel difficile lavoro di ricostruzione del tessuto sociale, politico e morale di una Sinistra davvero all’altezza dei tempi che corrono. Senza dividerci in mille partitini, grazie.