#Intellettuali in politica: dove vi nascondete?

Nelle ultime settimane si è aperto un dibattito sulle pagine de L’Espresso, promosso da Paolo di Paolo, sul tema dell’impegno degli intellettuali in politica e, più in generale, nella società. A questo appello dello scrittore romano, hanno fatto seguito vari interventi di altri scrittori, tutti con posizioni eterogenee, come, ad esempio, il caso estremo di Marcello Fois, per il quale l’unico aspetto rilevante è che l’intellettuale scriva bene. Il dibattito, però, è uscito dalle pagine del settimanale, ha coinvolto Zerocalcare, visto oggi come un intellettuale in ascesa, tra i pochissimi in grado di rappresentare la generazione dei trentenni, nonché l’unico in Italia attivamente impegnato sui temi dei migranti e della lotta all’ISIS. Anche Daniele Rielli, tra i giovani scrittori più virtuosi nel panorama letterario italiano odierno e da anni affermatissimo blogger nella veste di Quit the Doner, ha avuto modo di dire la sua e probabilmente è tra chi meglio ha compreso la realtà: che bisogno abbiamo di sentire l’opinione di questi intellettuali? Perché dovremmo elevarla sopra le opinioni altrui, in virtù di un ipotetico e ormai anacronistico ruolo di (vecchi) saggi? Soprattutto – conclude Rielli – gli intellettuali di oggi non sanno leggere la realtà, i suoi linguaggi e le sue sfaccettature, per cui che opinione di tendenza può derivarne?

Per quanto sia questa una tematica eternamente discussa e irrisolta, fin dai tempi di Pasolini, se non addirittura di Gramsci, e malgrado celi in nuce un’assenza di risposte esaustive, è apprezzabile questo sforzo di alcuni intellettuali italiani, estranei al mondo dello spettacolo e dei salotti illuminati (dalle luci eh), di voler intavolare un dibattito serio sul tema; quasi una sorta di seduta psicanalitica svolta tra amici, nel soggiorno di uno di loro, per chiedersi: o’, ma che stiamo a fa’? Pertanto, appare necessario anche a noi, con i dovuti distinguo, intervenire in questo dibattito, sia per l’importanza che ricopre, sia perché l’impegno degli intellettuali in politica e nella società è stato un tratto distintivo della sinistra, italiana e non solo.

Il PCI ne fece una virtù: i miglioristi, con Napolitano in prima fila, nascono dal mandato dato loro dal Migliore per creare un laboratorio culturale permanente all’interno del Partito, per coinvolgere le menti migliori della società; questo sforzo ha portato a un’elaborazione culturale senza precedenti (né successori, sigh) nel panorama politico italiano, e financo europeo, tanto da avere in parlamento la cosiddetta Sinistra Indipendente, proprio per coinvolgere intellettuali, del calibro di De Filippo, ma slegandoli da logiche geopolitiche, peraltro anacronistiche già all’epoca. Ecco che allora riaprire oggi un dibattito di questo tipo è fondamentale per ipotizzare un rilancio dei partiti italiani. Non possiamo pensare che il dibattito si appiattisca su temi quali il canone Rai o le Olimpiadi. Servono ragionamenti di più ampio respiro, che leggano la società in tutti i suoi strati e nelle sue sfumature più complesse. Serve un pensiero che analizzi i germi di una malattia che dura da decenni e la cui cura comporterà gli sforzi di almeno una generazione; non possiamo, quindi, soffermarci sulla quotidianità.

Se abbiamo elevato Rondolino e Maria Teresa Meli ad opinion leaders è perché abbiamo rifiutato una lunga serie di impulsi lanciati dal mondo dell’arte e della musica. E se tutti quei nuovi artisti emergenti rifiutano l’establishment o vogliono realizzarsi altrove, è perché hanno vissuto per anni vedendosi sbattere le porte in faccia nel nome della spocchia in velluto, da un lato, e della mediocrità mediatica, dall’altro.
Non basta il coinvolgimento episodico di Premi Strega come Edoardo Nesi (Scelta Civica, non pervenuto) o di filosofe stimate in tutto il mondo come Michela Marzano, se poi vengono lasciati soli a galleggiare in un sistema che non prevede un meccanismo di elaborazione culturale come motore dell’iniziativa politica.

Daniele Rielli ha solo ragione: non è necessaria una presenza degli intellettuali in politica. Il mondo anglosassone, del resto, non li ingloba necessariamente; siamo noi europei continentali ad avere questo gusto un po’ più retrò. Non servono necessariamente degli scrittori o degli scienziati attivi politicamente, se poi sono costretti alle periferie dei partiti in qualità di voces clamantes in deserto. Non servono come una categoria a sé stante che di diritto accede in politica; l’ipse dixit è una delle fallacie più grandi che si possano commettere e dell’opinione di qualche benpensante, slegata da ogni logica o tessuto culturale, ne facciamo tutti volentieri a meno. Oggi la società è eccessivamente complessa per pensare che uno scrittore possa sintetizzarla in una proposta politica a beneficio della collettività. Altra cosa sarebbe, invece, un movimento culturale che permei tutto il sistema politico. Le persone stesse si sono relativizzate e sono divenute più complesse; oggi ognuno di noi vive più identità, a seconda dei diversi momenti della vita o delle diverse occasioni, professionali, culturali o di relazione, che si affrontano. Perciò, un bravissimo scrittore non deve necessariamente essere inglobato da un partito, sorpattutto se è per il solo fatto di avere successo coi propri libri. Idee e interpretazione, prima di comporre un album di figurine con le varie categorie della società civile per poter dire ce l’ho, mi manca…
Ha ragione Rielli nel dire che servono, anzitutto, scrittori che sappiano interpretare la realtà nei suoi multiformi linguaggi.

A cavallo tra gli anni ’70 e ’80 Pier Vittorio Tondelli sapeva osservare gli sconvolgimenti della società più efficacemente di quanto facessero i partiti, soprattutto quelli di sinistra. Oggi Zerocalcare a Kobane, per quanti detrattori vogliano declassarlo italianamente al rango di fumettista, difatti fa molta più politica dei partiti e non è diverso dall’impegno cosmopolita di Byron, due secoli fa.

Prima ancora degli intellettuali in politica, mancano degli intellettuali che conoscano la realtà in tutte le sue forme, per poi plasmarla, e che sappiano essere il punto di riferimento culturale per alcune classi sociali o per un’intera generazione. Come al solito, il problema non è dei singoli, ma di sistema.

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