Analizzando le cronache, è evidente come la narrazione europea del 2015 sia passata da una crisi all’altra. Tutto è cominciato in estate con una pericolosa spirale negativa, rappresentata principalmente dal rischio Grexit, che ha avviluppato la UE in un vortice che non sembra essere ancora finito. Poi a settembre è scoppiata l’emergenza migranti, che ha occupato l’agenda europea fino agli attacchi di Parigi, che a loro volta hanno lasciato la scena al Capodanno da incubo a Colonia, che non ha sintetizzato ma moltiplicato alcune annose questioni perennemente irrisolte. Come se non bastasse, queste questioni, non ancora strutturalmente risolte, sono destinate a riproporsi nel 2016. Ecco perché non si può più tergiversare.
Nonostante il referendum, le nuove elezioni e l’espulsione di Varoufakis, la Grecia di Tsipras ha dovuto accettare un bailout tanto doloroso, quanto necessario. Sebbene i commentatori fossero ormai certi del crollo dell’Eurozona, sia i mercati sia le istituzioni si sono resi conto che uno scenario del genere, per quanto non impossibile, è perlomeno non auspicabile. Non lo è perché le ricadute sarebbero troppo gravi per poter essere sostenute con agilità; neppure perché ad oggi nessuno degli Stati Membri può permettersi di affrontare il mondo da solo e la UE fa ancora comodo.
Tuttavia, l’esperienza della scorsa estate ha rivelato quali tensioni corrano tra Francoforte e Berlino, enfatizzate da uno scontro tra Draghi e Schäuble. Se il primo si è rivelato uno dei pochi statisti europei degli ultimi anni, mantenendo l’integrità dell’Euro e lanciando un quantitative easing senza precedenti, il secondo ipotizzava, per un futuro sostenibile dell’Eurozona, un Euro a due velocità: forte per a Nord e più debole a Sud. Sebbene quest’ultima teoria liberal sia ormai in voga, a dimostrazione dell’attaccamento tedesco all’Euro, tale ipotesi sarebbe l’ennesima manovra improvvisata che non risolve i problemi di fondo. Infatti, un’unione monetaria deve essere sorretta da dei connotati tipici di uno Stato, in particolare: un’unione fiscale, una maggiore convergenza dei bilanci nazionali e una perequazione del debito. Tuttavia, questo salto di qualità non sembra in via di attuazione.
Cameron, in attesa del referendum sull’uscita del Regno Unito dalla UE, ha presentato quattro condizioni per trattare un dietrofront: una clausola di opt-out per la previsione all’Art. 1 del TUE di “un’Unione sempre più stretta”; il mantenimento della sterlina senza integrare la terza fase di Maastricht; un incremento del ruolo dei parlamenti nazionali per correggere gli atti europei, se non addirittura un potere di veto; una limitazione dell’accesso al welfare da parte degli immigrati intracomunitari. Gli ultimi due punti sono una palese negazione di quel processo di integrazione, ormai fermo, mentre dovrebbe rilanciare la UE nel 2016. Se l’uno rappresenta un enorme passo indietro sul fronte dell’attribuzione dei poteri alla UE, rivendicando un’anacronistica sovranità nazionale, l’altro è la chiara negazione delle quattro libertà fondamentali, nonché del principio del mutuo riconoscimento, principi che hanno contraddistinto la storia europea. È ragionevole condividere la lettura maggioritaria: la svolta nazionalista di Cameron serve ad indebolire l’UKIP, giungendo a una trattativa con la UE. Concessioni per scongiurare la Brexit. Oltre ai dati economici sfavorevoli alla Brexit e all’isolamento a livello internazionale in cui Londra si ritroverebbe, sono soprattutto Galles, Scozia e Irlanda del Nord i più contrari all’uscita, risultando decisivi al referendum.
In autunno l’emergenza migranti è arrivata ai livelli massimi di tensione mai raggiunti negli ultimi anni. La sola Merkel ha agito da statista, rispondendo al fenomeno migratorio con l’unica risposta razionale a disposizione: l’accoglienza. Tuttavia, l’iniziativa non è stata sufficiente sia per il fronte contrario dell’Est, sia perché serve una risposta europea. L’Italia, infatti, da sempre autoproclamatasi baluardo dell’accoglienza, ha ottenuto poco in Consiglio e le “quote migranti” non danno i frutti sperati. Persino i 3 miliardi concessi alla Turchia sembrano uno scaricabarile per prendere tempo. Tuttavia, come la storia insegna, un muro non può fermare i popoli. Ecco perché la UE, unione di popoli e culture diverse, non può indietreggiare. Non può farlo in virtù della sua storia e della sua cultura. Non può rinunciare, come notato da Prodi, a Schengen, la base di tutto ciò.
Perciò, un salto di qualità nel 2016 non è solo necessario, ma anche doveroso. Se, però, da Lisbona, grazie alla guida Merkel, l’Europa ha intrapreso un processo di sviluppo tecnico, che ha permesso di superare alcune difficoltà del passato, oggi questo approccio non sembra più sufficiente e, anzi, appare sempre più urgente un rilancio politico. Invece, la tendenza è ancora quella degli accordi nazionali paralleli, con le decisioni più importanti prese da Francia e Germania in summit riservati. Solo rimuovendo queste esigenze puramente nazionali si comprende che la massimizzazione del bene nazionale discende da un bene comune europeo.
Emblematico è lo scontro Renzi-Juncker. Se il Presidente della Commissione deve dimostrarsi forte ai falchi del rigore, il Presidente del Consiglio si dimostra alla continua ricerca del consenso interno, dopo aver vanificato il surplus riscosso dopo le elezioni del 2014 e confermando ancora una volta l’assenza di credibilità internazionale italiana. Forse serve ancora ascoltare Schuman perché “l’Europa non sarà fatta tutta in una sola volta, o con un unico piano, ma sarà costruita con conquiste concrete che creeranno solidarietà”. Passo dopo passo, ma la salita è lunga.
più europa?????