Giorgia Meloni vince con la fiamma, il PD fa peggio del PDS

Come ampiamente prevedibile, ha vinto il centrodestra. O meglio, ha vinto Giorgia Meloni, l’unica che negli ultimi anni non ha coltivato l’ambiguità delle larghe intese. Ed è proprio questo fattore, come già era stato per il Movimento 5 Stelle nel 2018, ad aver fatto la differenza, insieme all’alta astensione.

Il centrodestra? Ha preso gli stessi voti del 2018

Le prime analisi dei flussi elettorali ci dicono infatti che Fratelli d’Italia ha prosciugato Lega e Forza Italia, pescando poco nel M5S. Tanto che nel complesso, il centrodestra mantiene il consenso preso nel 2018 (pari a 12 milioni e 150mila voti), conquistando 150mila voti in più (ma perdendo 1 milione rispetto alle europee 2019).

La differenza, rispetto a 5 anni fa, l’ha fatta l’astensione, la più alta nella storia della Repubblica: tra quel 36% di astenuti vi è anche più di un terzo degli elettori 2018 del Movimento 5 Stelle. Un dato drammatico, soprattutto se consideriamo che i picchi di astensionismo si sono verificati nelle aree più povere del paese: c’è tutta una parte di elettorato appartenente alle fasce più fragili della società che non va nemmeno più a votare tanto è sfiduciato sulla possibilità che le cose possano cambiare. A questi, bisogna aggiungere anche gli studenti fuorisede, ignorati ad ogni elezione.

Il Partito Democratico a guida Enrico Letta riesce a fare peggio del PD renziano, perdendo alla Camera 800mila voti rispetto al 2018: complice l’astensione più alta di 9 punti, arriva al 19,07%, ma non c’è da stare allegri.

Giorgia Meloni non è il ritorno del Fascismo, ma a pagare saranno gli ultimi

Non condivido le analisi apocalittiche dei tanti per i quali se a vincere è il centrodestra, allora è la fine della democrazia. L’alternanza è un caposaldo delle democrazie: è stata proprio la stagione delle larghe intese, lunghe più di dieci anni, ad aumentare la sfiducia dei cittadini nelle Istituzioni. Perché se è pur vero che noi cittadini “non eleggiamo i governi”, è pur vero che nel 2013 e nel 2018 chi ha votato per un’idea di paese se ne è ritrovata un’altra per tutta la legislatura successiva (i famosi voti di Bersani che sono serviti per portare avanti i disastri di Renzi).

Non è nemmeno il ritorno del Fascismo (F maiuscola), e su questo non ho altro da aggiungere, Umberto Eco lo ha spiegato meglio. Siamo però di fronte a una maggioranza di fascisti, capeggiati da un’erede della tradizione missina. E se pure la dittatura non è dietro l’angolo (grazie alla Costituzione antifascista), non c’è da stare allegri.

Questo risultato elettorale lo pagheranno soprattutto gli ultimi, i diseredati, le minoranze. Perché di fronte all’impossibilità oggettiva di agire su determinate questioni che esulano l’azione degli Stati (guerra, prezzo dell’energia), Giorgia Meloni avrà due strade: prendersela col gender, gli immigrati, i giovani senza valori etc. oppure assistere alla propria parabola discendente, sperimentata da tanti leader “rivelazione” come lei. Visti i precedenti, la prima strada è scontata: scaricare su determinate minoranze la causa dei problemi della società è quanto di più antico ci sia al mondo (al riguardo, consiglio “Metamorfosi della paura”, del filosofo Escobar). Ovviamente, non risolve i problemi, ma assicura qualche anno in più al potere.

Il PD oramai prende meno dei DS

Non è bello e nemmeno elegante citare se stessi, ma mi trovo costretto a farlo. All’indomani delle elezioni politiche 2018 scrivevo su questo blog:

Insomma, a 10 anni dalla fondazione del PD, nato per superare le debolezze dei Democratici di Sinistra travolti dalla questione morale dello scandalo Unipol, siamo tornati al punto di partenza, con la differenza che il centrosinistra è oramai una forza residuale della politica italiana (e la sinistra è decisamente sparita), ma soprattutto è senza popolo, senza identità, senza valori, immerso nella Questione Morale e il suo elettorato tradizionale lo rincorre coi forconi.

Queste parole sono ancora valide. Con la differenza che non siamo più al punto di partenza ma siamo tornati indietro: il Partito Democratico riesce a prendere infatti meno voti dei tanto vituperati Democratici di Sinistra, che tra le tante pecche almeno avevano un collocamento ideale chiaro (la socialdemocrazia) e un radicamento territoriale senza eguali. Basti pensare che alle elezioni politiche 2006 i DS presero quasi 6 milioni di voti al Senato, 800mila voti in più del PD oggi (alla Camera c’era un listone targato Ulivo con la Margherita, preludio del PD, che supero gli 11 e fu usato come prova della necessità del superamento del partito). Col PDS invece non c’è proprio storia: nel 1996 prese quasi 8 milioni di voti.

Il Partito Democratico, nato per “vincere”, in questi 14 anni non ha mai chiarito la propria identità, ha dissolto il proprio rapporto con l’elettorato storico della Sinistra (che si è buttato o sui 5 stelle o nell’astensione) ma soprattutto ha perso tutte le elezioni politiche, pareggiando solo quelle del 2013.

Da sottolineare poi che mentre gli eredi del PCI toglievano nel 1998 la falce e martello ai piedi della Quercia per sembrare “più moderni”, “più affidabili”, “più responsabili”, Giorgia Meloni invece andrà al governo del paese con la fiamma missina bene in vista nel simbolo del proprio partito.

Una cosa tutta italiana: mentre negli altri paesi cambiano le classi dirigenti e resta il Partito, in Italia abbiamo cambiato tre volte nome e simbolo, senza cambiare le classi dirigenti. Anche quando perdono rovinosamente, Lor Signori sono sempre lì, salvo qualche eccezione, a scaricare la colpa della loro incapacità politica sugli altri.

Tutta colpa di Letta? No

Enrico Letta ha sbagliato tutto. Alleanze, parole d’ordine, campagna elettorale. D’altronde, era stato un pessimo vice-segretario con Bersani, un pessimo Presidente del Consiglio, quindi non si è ben capito per quale strana alchimia avrebbe potuto far meglio in una delle fasi più delicate della storia repubblicana. Nel Partito Democratico sono così: pur di non avviare un serio rinnovamento della classe dirigente, fanno svernare i perdenti di quella vecchia da qualche parte, e poi li ripescano come salvatori della patria. Film (e finale) già visto, ma dalle parti del Nazareno paiono avere la memoria corta.

Tuttavia, Enrico Letta non era uomo solo al comando come Renzi. La sua linea è stata votata da tutto il gruppo dirigente, ciascun membro del quale non dissentiva nella speranza di guadagnarsi “il seggio blindato”.

E qui torniamo a un problema centrale: dopo la Svolta della Bolognina i post-comunisti si sono liberati in fretta e furia di simbolo, storia e identità, salvo tenersi l’unica cosa di cui dovevano liberarsi. Vale a dire quella forma mentis per la quale la legittimità di una linea politica viene fondata sulla totale e incondizionata fiducia e difesa a oltranza dei gruppi dirigenti, a prescindere dalle proposte e dagli ideali espressi. Il Segretario, insomma, ha sempre ragione e bisogna sempre sostenerlo, qualsiasi cosa dica o faccia, anche se si dimostra incoerente politicamente.

Il risultato del “taglio delle radici”, unito a 30 anni di folle rincorsa verso il centro, e quindi verso destra (culminato col berlusconiano Renzi) è stato il deserto politico e culturale in cui viviamo ancora oggi, abitato da una marea di orfani e figli unici come sono io e tantissimi altri giovani, che non hanno più alcun punto di riferimento ma che non per questo smettono di lottare, benché la situazione non sia delle migliori.

Quale idea di società? Non quale leader

Dopo la debacle di Enrico Letta, è già partito il toto-nomi per il futuro segretario. Vista la vittoria di Giorgia Meloni, tra i tanti nomi spicca quello di Elly Schlein, eletta alla Camera da indipendente col PD, vicepresidente uscente dell’Emilia Romagna. Insistendo nell’errore: prima del leader, dovrebbe esserci il progetto, l’anima del partito.

E se il PD non vuole fare la fine dei socialisti francesi, deve anzitutto decidere quale idea di società sposare. E non può essere questa società, sempre più ottocentesca nella distribuzione della ricchezza, con un modello di sviluppo che distrugge il pianeta e non è più sostenibile economicamente e socialmente.

A costo di risultare noioso, prima di scegliere il leader, bisognerebbe mettere a fuoco un progetto per ricostruire l’alfabeto ideale con cui rispondere a quel bisogno di sete e di giustizia che è maggioritario oggi tra i cittadini e che la Sinistra non rappresenta più, tanto che viene considerata un’etichetta vuota e non porta più la gente a votare. 

Mancano idee? Rileggete Enrico Berlinguer

Si è parlato tanto di agende che non esistono in questa campagna elettorale, anche per nascondere il totale vuoto di chi le proponeva come panacea di tutti i mali. Ogni problema ha una soluzione semplice, che è anche sbagliata, diceva Shaw. Quindi il mio invito, a questo punto, è di rileggere Enrico Berlinguer.

Non per trovare soluzioni “pre-confezionate”, ma per dare ossigeno al cervello nel deserto ideale in cui viviamo oggi. Perché finché a Sinistra non ricominceremo a coltivare “pensieri lunghi” che vadano oltre le scadenze elettorali, continueremo a perdere. Che poi, se anche si vince, bisognerebbe capire in nome di cosa e di chi. Ai tempi di Berlinguer lo sapevamo. Se vince Giorgia Meloni, è anche perché non lo sappiamo più.