#Berlinguer è più vivo di voi

Non ho mai conosciuto Enrico Berlinguer, sono nato cinque anni dopo la sua morte. Quindi, a rigor di logica, di lui non dovrei saperne niente. E in effetti, in quel luglio 2007, quando questo “vir probus” (la definizione è di Giorgio Bocca) entrava per caso nella mia vita per non uscirne mai più, di lui non sapevo nulla. 

E fu proprio questa la mia fortuna: non sapendone nulla, quando finii di leggere il monumentale lavoro di Chiara Valentini non mi bastavano le biografie, volevo leggere i discorsi. Ma dei suoi discorsi non c’era praticamente più nulla. Così iniziai a raccogliere tutto quello che trovavo e il 16 febbraio 2009, come esperimento per l’esame di informatica all’Università, creai enricoberlinguer.it. Il primo sito web su Enrico Berlinguer. Sì, perché nessuno ci aveva davvero mai pensato a fare qualcosa che facesse conoscere agli altri questa figura così anomala della politica italiana.

Sono passati 10 anni da allora. Oggi ho 30 anni e temevo qualche anno fa che avrei subito in parte gli effetti di “quella famosa legge per la quale si è rivoluzionari a vent’anni e poi si diventa via via liberali, conservatori e reazionari.” Temevo cioè di disaffezionarmi dalla figura di Berlinguer e di considerarlo, come tanti, troppi altri, “poco moderno, superato, antico”.

Non è successo. E il merito non è mio, è tutto di Berlinguer. Ho riletto negli ultimi mesi i suoi discorsi, che avevo raccolto in “Casa per Casa, Strada per Strada” (che uscirà in una nuova edizione rivista e ampliata a maggio): confrontati con l’inconsistenza di pensiero e la volgarità imperanti oggi, non c’è paragone. Dalla questione morale alle riflessioni sulla società capitalista connessa allo sfruttamento dei giovani, delle donne, degli ultimi, ogni parola che diceva e scriveva aveva lo spessore profondo di un uomo che credeva davvero in quello che faceva.

Natalia Ginzburg, a un anno dalla morte, scrisse:

Ogni personaggio pubblico ama la folla, il clamore degli applausi, il consenso pubblico, ma lui non li amava. Non ne aveva gioia. La gente amava in lui quell’assenza di gioia negli applausi, quella forza severa, dimessa e triste, quella forza che non aveva i connotati della forza.

Eppure Enrico Berlinguer amava a tal punto gli ideali per i quali lottava che su quel palco a Padova, davanti alla sua gente, pronunciò il suo ultimo discorso con un ictus in corso. Ecco, dopo anni a leggere e ad ascoltare le sue parole mi sono convinto che una delle ragioni per le quali noi ne subiamo ancora il fascino e arriviamo a sentirne il bisogno anche se non lo abbiamo mai vissuto è dovuto al fatto che quando parlava non cercava di farti la lezioncina, come fanno i politici di oggi. Spiegava le sue ragioni, non parlava complicato, si capiva subito tutto quello che diceva, eppure diceva cose pesanti, che facevano riflettere, che lasciavano un segno. Quando Berlinguer parlava eri felice perché sentivi di far parte di una comunità che il mondo lo voleva cambiare per davvero. Oggi questo non c’è più.

E questo fatto vale più di qualsiasi sproloquio sul PCI che “stava tra la gente ma non vinceva mai” (che oltre a essere falso, denota una bassezza culturale che spiega molto delle macerie della Sinistra oggi). Perché alla fine, Berlinguer, da morto, continua a dire molte più cose sull’oggi dei tanti vivi che negli ultimi 35 anni hanno cercato di seppellirlo e cancellarlo dalla storia.

Non siamo noi che siamo nostalgici (non si può avere nostalgia di qualcosa che non si è vissuto), sono i politici di oggi (p minuscola) che non hanno nulla da dire al Paese (e infatti occupano l’agenda politica, quando va bene, col sistema di voto di Sanremo): ricordare, rileggere e prendere ad esempio Enrico Berlinguer ha a che fare più con lo spirito di sopravvivenza che con la nostalgia.

Fatevi quindi un regalo: in queste settimane, rileggetevi Berlinguer. E restate connessi: proveremo a ricordarlo con tutti gli onori nei prossimi mesi.