#Referendum, che tristezza di dibattito

Domenica 17 aprile gli elettori italiani saranno chiamati alle urne per esprimersi in merito al seguente quesito:

 “Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale?”

Fortunatamente, uno sparuto numero di commentatori ha insistito per parafrasare i complessi tecnicismi giuridici, permettendo così di comprendere la vera materia del contendere: abroghiamo una volta per tutte il rinnovo delle concessioni delle trivellazioni entro le dodici miglia marittime?

Bisogna subito rilevare che in questi mesi di scarsa campagna referendaria il dibattito ha coinvolto anche argomenti del tutto fuorvianti, se non addirittura completamente estranei al tema, con l’unico risultato di aver reso l’imminente referendum più l’oggetto di una barzelletta o di un hashtag, piuttosto che quello che dovrebbe essere: l’espressione più alta del voto popolare, la manifestazione più pregnante di sovranità popolare.

L’Italia non è particolarmente ossessionata dai referendum, sebbene in passato proprio gli esiti referendari, come quelli sul divorzio o sul sistema elettorale, hanno determinato la conformazione del sistema Paese. Tuttavia, è innegabile che, soprattutto nell’ultimo ventennio, il referendum sia diventato lo strumento principe dei comitati popolari per affermare la propria volontà, scavalcando i canali rappresentativi, sempre meno pronti a interpretare e dare attuazione a determinate istanze, fino ad arrivare, come nel 2011, ad un plebiscito per screditare il governante di turno.

Perciò, sia in riferimento all’appuntamento di domenica sia in generale, si pongono alcune riflessioni circa l’essenza stessa di un referendum e del dibattito pubblico che si crea attorno ad esso.

L’art. 75 Cost, infatti, prevede, quale strumento di democrazia diretta, il referendum popolare a carattere abrogativo, escludendo (2° comma) alcune materia in ambito fiscale, contabile, di amnistia e indulto o per ratificare o autorizzare i trattati internazionali. Il 4° comma, tuttavia, impone un quorum costitutivo del 50% + 1 degli aventi diritto permettendo un facile gioco del partito dell’astensione: prima ancora che lavorare per far vincere alle urne il NO, chi è contrario a un esito positivo del referendum, sia esso la maggioranza di governo o altre forze rappresentative, può più facilmente far andare a vuoto la chiamata referendaria invitando gli elettori all’estensione. Ecco che allora ci si può comprensibilmente chiedere: ma ha senso questo meccanismo? Siamo sempre pronti a gonfiarci il petto considerando il voto come un dovere civico, ma è innegabile che sia prima di tutto un diritto, comportando così anche la più completa libertà di esercitarlo o meno. Vero è, però, che in un periodo di totale incapacità dei corpi intermedi di saper rappresentare le istanze popolari, l’inno all’astensione suona quantomeno stridente. Inoltre, per i fanatici della spending review, fare andare a vuoto un referendum, per il semplice fatto di non aver raggiunto il quorum, è sostanzialmente uno spreco di fondi pubblici. Per domenica, si sarebbe potuto facilmente risolvere il problema finanziario con un unico election day, in concomitanza delle amministrative, ma, a voler pensar male, a quel punto, il partito dell’astensione come avrebbe potuto conciliare il compiacimento del flop referendario con le necessarie esigenze di raccogliere consenso nelle principali città italiane? Il problema della coerenza sarebbe stato irrisolvibile.

Recentemente anche molti personaggi politici hanno preso posizione: se Boldrini e Di Maio voteranno SI, Renzi, così come Napolitano, non hanno esitato ad invitare il popolo all’astensione, lanciando anche un messaggio inequivocabile: questa materia è troppo tecnica per poter essere data in pasto alla casalinga di Voghera. Per quanto sia fondamentale che i maggiori esponenti politici esprimano una posizione, vedere delle cariche pubbliche incitare all’astensione fa sempre storcere il naso. Questo, però, è semplicemente dovuto a quel gioco che s’instaura sul raggiungimento del quorum. Se quella soglia in origine aveva la funzione di caricare di significato il referendum, che doveva riguardare delle questioni vitali per il Paese, oggi viene da interrogarsi se quel requisito non sia superabile. Nel panorama comparato, si vedono sistemi in cui il quorum non è richiesto e altri, come i Paesi Bassi, dove la soglia è decisamente più bassa (30%). Una prima mossa in tal senso, dagli innumerevoli profili critici, si è verificata con la nuova riforma costituzionale, che, tra le altre cose, prevede l’applicazione del quorum sul numero dei votanti alle ultime elezioni per la Camera dei Deputati.

Si deve, però, aggiungere un altro tema estremamente rilevante che si è posto: possiamo chiamare l’intero insieme degli elettori, nella sua eterogeneità, a pronunciarsi su materie particolarmente tecniche? Tecnicamente i requisiti ai fini di indire un referendum abrogativo prevedono che il quesito riguardi una questione di ordine generale, una fonte pariordinata alla legge ordinaria, così imponendosi al legislatore ordinario fino a quando non saranno mutate le condizioni sociopolitiche. Anche le funzioni di controllo svolte dalla Cassazione, prima, e dalla Corte Costituzionale, poi, ai fini della verifica del rispetto della legge, depongono in questo senso. In particolare, la Consulta, verificando il parametro imposto dall’art. 75, dichiarerà inammissibili i quesiti disomogenei (quando l’oggetto non è definito), non univoci (quando il risultato in caso di esito positivo non sarebbe chiaro) o che riguardano leggi la cui presenza è necessaria. Pertanto, per quanto è innegabile che il quesito sulle trivelle riguardi una materia estremamente tecnica, non si può dire che tutti i requisiti formali non siano soddisfatti. Perciò, la questione si sposta più su un piano sostanziale: è, dunque, compito di chi sostiene le varie posizioni del referendum chiarire la questione, renderla fruibile ai più, così da permettere un voto consapevole e informato. In vista di domenica, invece, il dibattito pubblico, oltre che scarso e sporadico, è stato soprattutto forviante; con la vittoria del SI, ad esempio, c’è chi proclama l’autarchia energetica o una rivoluzione green, quando, invece, l’unico risultato è che le autorizzazioni ora concesse alle trivellazioni entro le dodici miglia marittime andranno a scadenza naturale (magari tra dieci anni), senza rinnovo, con evidenti problemi interpretativi all’interno del sistema amministrativo.

Bisogna, però, rilevare un argomento interessante: in ogni caso il referendum potrebbe avere anche un carattere di indirizzo, atto, quindi, a lanciare un segnale al legislatore per adottare una determinata linea politica. È senz’altro un argomento ricco di significato, ma che incontra degli ostacoli del tutto contingenti: nessuna forza politica, alla luce del ridottissimo dibattito a cui stiamo assistendo, ha oggi intenzione di intraprendere questa lotta. Ecco che, quindi, usare uno strumento eccezionale e delicato come un referendum, per di più abrogativo, per lanciare dei messaggi espone la rappresentanza politica su un versante scivoloso. Qui, invece, serve la politica rappresentativa: un’istanza popolare deve tradursi in una proposta elaborata da un corpo politico, fornito di strumenti adeguati per farlo, in grado di rappresentare una fetta di elettorato in Parlamento. Perciò, appare quantomeno rischioso, ai fini di un corretto funzionamento della democrazia parlamentare, un uso del referendum di questo tipo e ciò è ancora una volta dovuto all’incapacità dei partiti di essere propositivi e riformisti. Il rischio che si sta correndo, quindi, è quello di svuotare di significato uno strumento di partecipazione democratica diretta come il referendum per fini meramente strumentali e di ripicca. In un periodo di profonda crisi rappresentativa questo uso distorto si pone come l’ennesimo tentativo di scuotere il sistema improvvisando soluzioni, anziché cercando un po’ di efficienza sostituendo le mele marce.

17 commenti su “#Referendum, che tristezza di dibattito”

  1. Mi permetto di dissentire. Per essere precisi, bisogna dire che non è stata una raccolta di firme ad indire il referendum, ma un’iniziativa di alcune Regioni. Non mi sembra di poco conto. Poi ancora, nè Renzi nè Napolitano hanno incitato all’astensione, hanno detto giustameente che astenersi è un legittimo comportamento. Detto ciò, che il quorum si raggiunga o meno, i 300 miloni sono stati spesi, non cambierebbe nulla in sostanza: se si cercano i colpevoli di questo spreco, bisognerebbe chiedere a Emiliano & co. Ultima cosa, mi pare molto, ma molto peggio diffondere falsità sul significato del quesito piuttosto che invitare all’astensione, ma questo è il mio umile pensiero.

    • Ciao, è stata una raccolta firme a proporre il quesito del referendum, raccolta firme andata male (non furono raccolte le 500 mila necessarie). Così le regioni interessate hanno richiesto loro la consultazione. Consultazione che poteva essere accorpata alle amministrative facendo risparmiare 300 milioni, cosa che non si è voluta fare nella speranza di far fallire il referendum di default. Astenersi è legittimo, invitare gli altri a farlo da pubblico ufficiale è reato (cfr sentenza della cassazione), spendere soldi pubblici per far fallire una consultazione non lo è ma è politicamente indecente.
      Inoltre, i dati diffusi dal comitato per il No (in realtà astensione) sono abbastanza “fantasiosi” (cfr il video di Balzani e Armaroli pubblicato su questa pagina).
      Che il comitato per il sì sia stato costretto alla banalizzazione, se vogliamo, pur di bucare lo schermo fa parte del gioco, più che altro perché un mese fa l’informazione sul tema era nulla (anche se non ci piace per nulla).

      La vera questione di questo referendum sono le concessioni a vita, che non dovrebbero esistere in nessun paese c.d. occidentale, ma dovrebbero essere correlati all’investimento in ricerca e sviluppo. Questa è la vera questione, oltre allo spreco di denaro pubblico (merito di chi non ha voluto accorpare).
      PF

    • Allora, ripeto che nessuno ha abusato della propria carica per invitare all’astensione: Flik e Flok hanno detto che è legittimo farlo. Per quel che ne so, è vietato per legge accorpare i referendum alle elezioni, proprio per rispettare il principio dietro il concetto di “quorum”. Poi ancora, se la raccolta firme è andata male, significa che la volontà del popolo sovrano non è che fosse proprio quella di indirre ‘sto referendum, dai su. Che il sì sia stato costretto a banalizzare dai comitati per il no (1 comitato contro migliaia per il sì) bhe, mi ci faccio una risata sopra. La marea (nera) di fesserie che hanno sparato i notriv è troppo esageratamente grande per essere considerata accettabile (a partire da “no alle trivelle!”).

    • Qualcosa di Sinistra non sono d’accordo sul fatto che si sia scelto di fare referendum in una data diversa dalle amministrative, nella speranza di farlo fallire. A mio modo di vedere, se l’avessero fatto sarebbe stato falsato, perché se una persona va a votare per le amministrative è difficile che non scelga di votare anche per il.referendum. Minando alla base il principio referendario del quorum e della volontà popolare.

    • “pur di bucare lo schermo fa parte del gioco”: appunto questo e` indice della gravita` del problema, ormai mentire spudoratamente e prendere per i fondelli gli elettori e` diventata la norma, quindi invece che rifiutare questa pratica, la si adotta alla grande, tanto “cosi` fan tutti” … come tirarsi la zappa sui piedi da soli e sfiduciare i pochi illusi di poter migliorare il nostro paese, grazie mille

    • Fabio Guddo No, certo. Poi c’era anche la marmotta che confezionava la cioccolata. Ma per favore. E’ vietato da una legge varata dal governo Berlusconi, nella speranza di far fallire i referendum del 2011 su acqua pubblica e nucleare. Almeno studiate prima di dar aria alle corde vocali. Per quanto riguarda la raccolta firme, era quella di Possibile su 8 quesiti referendari, ne hanno fatto una battaglia di bandiera e propria, per questo non vi è stata la convergenza di altri su quella battaglia (lì l’errore di strategia fu di Civati). Esiste un solo Comitato per il Sì e uno per il NO (i presidi territoriali sono altra cosa), fino a 3 settimane fa la televisione ignorava volutamente il tema.

      Se andiamo a vedere le fesserie dette dai favorevoli all’astensione (ricaduta occupazionale, l’importazione dall’estero, la perdita di centinaia di milioni di euro per le casse pubbliche etc.) sono di gran lunga maggiori rispetto alla generalizzazione “No alle trivelle” fatta dal Comitato del Sì.

    • Ma che ca… stai a di’? Intanto abbassa i toni, chè qua nessuno ha offeso nessuno. Quando ti sei calmato il sangue, uomo di Sinistra tanto per dire, ti potrai permettere di parlare di lavoro e licenziamenti con me che sono del settore, e che lo sto vivendo sulla mia pelle.

    • La differenza fra sì e no è semplicemente che per capire le ragioni del no devi pensare, mentre le bugie dei pro-sì non richiedono altro che una bella pancia a cui rivolgersi. Il fatto che tu non le abbia capite, o pensi siano invenzioni, significa solo una cosa, caro il mio pseudocomunista. Scorretto

  2. a c’è mai stato un dibattito? dalla domanda fondamentale sulla concessione alle piattaforme avete tirato fuori le trivelle, poi i disastri ambientali, poi le rinnovabili e alla fine una battaglia contro il governo – va là, che alla fine è giusto astenersi e solo perchè non avete mai voluto fin dall’inizio un dibattito serio sulla domanda del referendum

  3. Articolo ambiguo e fumoso per essere” qualcosa di sinistra”: è una “questione tecnica” una proroga delle concessioni a tempo indeterminato? perché il governo si è premurato di fornire carta bianca alle compagnie, aggiungendo le due righe contestate che le regioni coinvolte hanno chiesto di abrogare con un referendum? conosciamo il meccanismo delle scatole cinesi, codicilli e sottocommi, con il quale negli ultimi anni si è tentato di fare passare in silenzio decisioni discutibili sulla pelle dei cittadini…

I commenti sono chiusi.