Ogni giorno l’attualità riporta casi di efferati delitti che spesso sconvolgono le nostre coscienze e ci spingono ad interrogarci sull’efficacia dei metodi punitivi attuali. Non appena i telegiornali riportano la notizia di un crimine, subito si accende il dibattito sulla certezza della pena, dibattito dal quale emerge quasi sempre una visione “colpevolista”: chi ha commesso un delitto deve essere punito con la prigione e deve scontare la sua pena per molti anni al fine di non rappresentare più una minaccia per la società.
Oggi voglio, invece, proporvi una visione completamente diversa che ci permetterà di approfondire la riflessione su questo tema. Il celebre magistrato Gherardo Colombo, nel saggio Il perdono responsabile. Si può educare al bene attraverso il male? Le alternative alla punizione e alle pene tradizionali (2011), sostiene l‘inadeguatezza della prigione e la necessità di trovare un modello alternativo a quello della punizione e del sistema carcero-centrico. Colombo spiega che esistono due concezioni opposte della pena, riassumibili nella contrapposizione tra giustizia “retributiva” e giustizia “riparativa”.
La prima, che ha trionfato nella civiltà contemporanea a partire dalla rivoluzione francese e da quella industriale, si basa sull’idea che chi commette un reato deve essere allontanato dalla società piuttosto che re-inserito. La prigione si costituisce come il modello per eccellenza di questo sistema che l’autore definisce, riprendendo Foucault, della prevaricazione, dell’esclusione e della separazione. L’idea fondamentale che sta alla base della giustizia “retributiva” è che chi ha commesso un’infrazione deve essere punito col male e con la sofferenza. Tuttavia, secondo Colombo, questo modello è profondamente sbagliato, inutile e ha fallito nel tentativo di limitare reati e crimini. Innanzitutto il giurista si chiede se davvero si può arrivare al bene attraverso l’inflizione del male o se serva, piuttosto, una strada alternativa. La risposta è che il sistema carcero-centrico non funziona ai fini del recupero del trasgressore, il quale viene separato dalla comunità, e non serve nemmeno a riparare il danno subito dalla vittima la quale trova nell’incarcerazione del colpevole solo la soddisfazione del proprio desiderio di vendetta. Inoltre, secondo Colombo, il modello della detenzione non è nemmeno conforme al dettato costituzionale in quanto lede i diritti sociali e fondamentali della persona. Un individuo che commette un reato, per quanto grave, rimane depositario di una dignità sociale che non può essere cancellata o annientata. E ancora, secondo il giurista, il sistema carcerario ha fallito nel tentativo di recuperare e “guarire” il trasgressore dal momento che, secondo le statistiche, il 60 % di coloro che sono stati in prigione, una volta fuori, commettono altri reati. Ma come mai il carcere, nonostante questo fallimento, trionfa ancora nella nostra società come istituto della punizione? Colombo individua le ragioni di tale fenomeno nell’emotività della comunità. Quando qualcuno commette un reato, la risposta da parte della collettività è istintuale e non razionale. Secondo il giurista, l’esempio della paura nei confronti del lupo spiega bene il concetto: chi ha terrore del lupo vuole che il lupo sia eliminato o messo in gabbia.
Al contrario, la giustizia “riparativa”, che rappresenta il modello ideale secondo il giurista, permette al trasgressore di riflettere su quello che ha commesso, accompagnandolo in un percorso finalizzato al suo re-inserimento all’interno della società. In altre parole, il modello “riparativo” insegna al colpevole ad essere responsabile, a dialogare con la comunità alla quale ha creato uno “strappo” e persino con la vittima. Questo è il motivo per il quale, afferma Colombo, il carcere è inutile. Il rispetto per gli altri e il dialogo non possono maturare in prigione dove regnano l’obbedienza e la sottomissione forzata nei confronti della gerarchia. L’obbedienza che il carcere inculca non è altro che la paura della punizione e agire perché si teme una reazione vuol dire non essere liberi. Insegnare ad obbedire è in antitesi rispetto all’insegnare ad essere responsabili. La giustizia “riparativa”, invece, promuove un dialogo tra il responsabile e chi ha subito il torto, coinvolgendo la collettività che è chiamata alla ricomposizione tra la vittima e il carnefice. È il modello del “perdono responsabile”, completamente antitetico a quello della giustizia “retributiva”. Tuttavia il giurista è ben consapevole che, oggi, tale idea non sarebbe accolta favorevolmente nella nostra società la quale non è ancora pronta e matura per accogliere un modello basato sul perdono e sulla comprensione reciproca.
Ma quali sono quelle misure che dovrebbero sostituire il carcere e permettere il recupero del trasgressore? Innanzitutto Colombo propone lo strumento della mediazione penale, auspicando che possa imporsi sempre di più sul processo penale. Nella mediazione penale, le istituzioni favoriscono il dialogo tra il trasgressore e la vittima: il colpevole affronta un percorso nel quale capisce l’errore e chiede perdono alla vittima, offrendole un risarcimento anche simbolico. Dal canto suo, la vittima trova un momento di riparazione attraverso la comprensione del “perché proprio a me è capitato” e trova ristoro alle sue sofferenze attraverso il gesto del trasgressore. Altre soluzioni proposte sono quelle che Colombo chiama sanzioni positive che promuovono all’osservanza delle regole come, ad esempio, l’affidamento ai servizi sociali o a comunità non regolate sul modello carcerario della disciplina e della gerarchia.