Finanziamento pubblico, diario di un inganno

Si sa, in questo bel Paese abbiamo proprio bisogno di avere un capro espiatorio per tutto. E in questi anni, mesi, giorni un po’ comici, un po’ decadenti e un po’ bugiardi la favoletta che senza finanziamento pubblico ci sarà meno corruzione, ci saranno meno ruberie, meno rischi etici, morali, politici, ecco questa bellissima favoletta oggi la conoscono tutti.

Ed è bella, in fin dei conti, perchè ti deresponsabilizza: che problema c’è? Si eliminano i finanziamenti pubblici, così finalmente i cittadini non dovranno pagare i partiti. C’è un fondo di verità, di ragionevolezza, di linearità in tutto ciò. Quello che è accaduto in questi anni è indecente, una vergogna istituzionalizzata a “strumento democratico”. Ma, domanda seria, davvero pensiamo che se venissero aboliti i finanziamenti ai soggetti politici potremmo avere un cambiamento netto e radicale in tema di etica pubblica? Davvero basterebbe così poco? Se così fosse, sarebbe davvero bello, semplice, quasi banale.

Invece, guarda che coincidenza, se si dà una velocissima e distratta occhiata all’illustre elenco dei Paesi in cui il finanziamento pubblico non esiste si scopre che non sono propriamente esempi di democrazia (eccetto la democraticissima Svizzera, quella dove fino agli anni ’70 si andava a votare spada in spalla, tanto per capirci). Torniamo al punto di partenza: che fare con questo benedetto finanziamento pubblico? Abolirlo? Lasciarlo così com’è? Intendiamoci: lasciare le cose come stanno adesso sarebbe stupido, disonesto e diseducativo.

Però cercare di ragionare in termini non solo di campagna elettorale permanente – ormai elevata a rango di disciplina olimpica nazionale – potrebbe essere un approccio non addirittura saggio, ma quanto meno rispettoso dei cittadini italiani. Per prima cosa, ovviamente, ci vorrebbe una razionalizzazione quantitativa delle somme pubbliche erogate ai soggetti politici: ciò non risponde soltanto a un’esigenza di tipo finanziario (in fin dei conti, se ci pensiamo, decine di milioni di euro di differenza non mandano in deficit uno Stato) ma anche – e se vogliamo, soprattutto – a un’esigenza meno evidente, meno immediata, di medio termine: ogni atto, ogni fatto, ogni scelta risulta sempre, prima o poi, non solamente fine a se stessa ma assume un significato più generale, un esempio, una dimostrazione del rapporto tra istituzioni e cittadini.

E’ in questo senso che la razionalizzazione dei finanziamenti sarebbe una misura giusta, perchè educativa, esemplare, una dimostrazione – specie ai più giovani – che lo Stato e i partiti non sono fuori dalla realtà ma sono parte integrante di essa. E qui arriviamo alla seconda – e più delicata, dunque divisiva – questione: è sana una democrazia in cui i finanziatori privati giungono a essere la principale forma di sostentamento dei partiti (e movimenti, s’intende)? Se sì, qual è il limite oltre cui possiamo ragionevolmente iniziare ad avanzare qualche legittimo dubbio circa l’indipendenza dei soggetti politici dalle lobby finanziarie, editoriali, ecclesiastiche e – più in generale – dai poteri di pressione esterni alla politica? Difficile dirlo.

Si fa prima a dire ciò che oggi non c’è e dovrebbe esserci, ossia una legge chiara sulla regolamentazione dei rapporti tra lobby, politica, fondazioni e partiti. Tutte cose che esistono e – in certa misura – è normale che esistano. Ma se le lobby continuano ad essere qualcosa di oscuro, in quella camera ipobarica a metà strada tra il complottismo e il rischio di un condizionamento pericolosissimo su partiti e movimenti politici, come possiamo gettarci tra le braccia del finanziamento privato?

Un atto di umiltà nazionale: perchè non guardare alle legislazioni estere (specie degli altri Stati europei) in materia di centri di pressione e fondazioni? Non sono, certamente, legislazioni perfette, complete e esaustive, ma costituirebbero forse un buon punto di partenza per fare chiarezza nei rapporti tra imprenditoria, finanza e politica.

Il fatto che attualmente i tre principali partiti italiani (pd, m5s, fi) siano in mano rispettivamente a un segretario/premier il cui stretto collaboratore è un noto finanziere come Davide Serra, a un comico miliardario che collabora quotidianamente con un “imprenditore”/manager come Gianroberto Casaleggio, e al padrone di tre reti televisive nazionali (oltre che frodatore fiscale, roba da nulla) di certo non dovrebbe farci dormire sonni tranquilli; di certo non potremmo dormire sonni tranquilli considerando che una democrazia è tale se, oltre alle istituzioni democratiche, esiste un livello sufficientemente adeguato di consapevolezza democratica.

Ma qui, effettivamente, torniamo al problema di partenza.