Lavoro, la riforma che non c’è

Era ormai da troppo tempo che il lavoro non era al centro della discussione politica. Eravamo abituati ad assistere a dibattiti politici che toccavano poco la vita della gente normale dato che, fino a pochi mesi fa, si affrontavano temi strettamente legati ai problemi giudiziari di Berlusconi. 

Parlare di lavoro non può che essere un bene perché i partiti di sinistra hanno la possibilità di dimostrare che sostenere degli ideali ed appartenere ad una determinata cultura, significa avere a cuore il benessere (e la felicità) dei singoli individui. Per le elezioni del 2013, inoltre, proprio la valorizzazione del lavoro e la sua difesa potranno costituire il “collante” fra i soggetti politici di sinistra.

Quali sono le novità che verranno introdotte dalla riforma? La bozza del governo per ora (sono possibili delle modifiche in quanto si tratta di una legge delega) prevede l’introduzione della distinzione fra licenziamento individuale per motivi economici e licenziamento per motivi disciplinari, la creazione dell’Aspi che andrà a sostituire l’odierno sussidio di disoccupazione, l’assunzione del lavoratore da parte dell’impresa (dopo 36 mesi di contratto a tempo determinato) in maniera definitiva e lo stop agli stage gratuiti dopo il periodo degli studi. 

Diviene significativa, dunque, la differenza tra licenziamento per motivi disciplinari e licenziamento per motivi economici. Se un lavoratore venisse licenziato per motivi economici, non avrebbe la possibilità di chiedere all’impresa il reintegro (come avviene invece per il licenziamento disciplinare illegittimo). Dovrebbe accontentarsi dell’indenizzo che le imprese verserebbero per un periodo che va dalle 15 alle 27 mensilità.

Relativamente al licenziamento disciplinare, la novità è rappresentata dal fatto che se questo è ritenuto ingiusto, in alcuni casi sarà il giudice a decidere esclusivamente per il reintegro (finora è il dipendente a scegliere fra l’indennizzo e il reintegro). Ma chi vorrebbe continuare a lavorare in un’azienda in cui ci sono stati liti o contenziosi col datore di lavoro?

Per quello che attiene il licenziamento economico, la norma è palesemente ingiusta oltre ad essere piuttosto confusa. Come lo giustificheranno le imprese? Attraverso la volontà di voler eliminare alcuni reparti o aree aziendali? Oppure mostrando tramite i bilanci in passivo, l’impossibilità di poter continuare a stipendiare i lavoratori? E poi: se ci fossero motivi economici che inducessero l’azienda a licenziare, allora quest’ultima dovrebbe congedare più persone e non un determinato individuo. In questo modo si favoriscono i licenziamenti collettivi anche perché costano meno dei licenziamenti individuali.

L’entrata nel mondo del lavoro sarà regolata dal contratto di apprendistato che si applica però solo ai giovani fino a 29 anni. Il governo forse non è al corrente del fatto che il 50% dei lavoratori precari ha più di 35 anni. Dagli ammortizzatori sociali i lavoratori a progetto e i precari continueranno ad essere esclusi.

In conclusione: siamo di fronte ad una riforma-pasticcio che ha come aspetto positivo solo quello della messa al bando degli stage gratis. Per il resto l’ intento resta quello d’indebolire il sindacato e i lavoratori diminuendo le tutele in nome di un falso dinamismo e di una falsa produttività. Non è una novità: lo scenario in cui viviamo è quello della dominanza delle politiche conservatrici e neoliberiste su quelle dello stato sociale.

Pare che ai membri del governo non sia passata  per la testa l’idea che magari prima di parlare di riforma, il lavoro bisognerebbe crearlo. Si vuole che le imprese straniere vengano ad investire nel nostro paese? Perché non lottare contro la corruzione e la criminalità organizzata in particolar modo al meridione? Perché non semplificare la burocrazia? Perché non ridurre i costi inutili per le imprese? Di questo i nostri ministri (Monti e Ferrero che sono considerati grandi economisti) non parlano perché le loro sono misure politiche che hanno ben poco di tecnico e che puntano a cancellare quei pochi diritti rimasti, facendo passare l’idea che per garantire i diritti ai più giovani, bisogna toglierli a chi giovane più non è.