Ripubblico qui l’articolo apparso oggi sul Fatto Quotidiano a firma di Nando Dalla Chiesa, in quanto lo trovo illuminante e pienamente condivisibile da parte di tutti quelli che la Questione Morale la vogliono affrontare non solo a parole, ma anche con i fatti. E una preghiera ai militanti del Pd fan di Penati che in questi giorni si stanno arrampicando su tutti gli specchi pur di salvare il loro ex-padrino: leggete questo articolo e provate a pensare che cosa avreste detto o fatto se al posto di Penati ci fosse stato uno del Pdl. Una cosa è certa: non l’avreste difeso a spada tratta. PF
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Diciamola tutta, però, la verità sul caso Penati. Altrimenti è inutile parlarne. Filippo Penati non è un “mariuolo”, come ormai hanno capito tutti. La sua vicenda chiama in causa un sistema. Che non è però, questo il punto, solo il “sistema Sesto”. Bensì qualcosa di più ampio, perfino un modello di politica. Penati è stato l’uomo del Nord del Pd. Ben più organico dei sindaci di grandi città a quelle strutture informali e solidissime che compongono le vere catene di comando dei partiti. Fatte di lealtà, di silenzi, di riconoscenze, di reciprocità. Da Sesto a segretario provinciale Ds a presidente della Provincia di Milano a capo della segreteria di Bersani, ha sempre goduto di un largo consenso. A partire da Milano, dove i partiti del centrosinistra ne hanno incassato senza fiatare (con pochissime eccezioni) prima l’autocandidatura perla Provincia poi la candidatura dall’alto per la Regione, in tutti e due i casi senza passare per le primarie. A Milano, dopo la vittoria elettorale in Provincia si favoleggiò a lungo di un “metodo Penati” che avrebbe dovuto funzionare da esempio e riferimento per andare finalmente alla conquista del Nord. L’uomo si propose anzi, appena presidente della Provincia, come futuro sindaco della Grande Milano, ovvero l’area metropolitana più ricca e popolosa d’Italia. Con un sostegno e un’apertura, anche questo va ricordato, davvero straordinari da parte dell’informazione locale. La sua stessa candidatura alla presidenza della Regione Lombardia, dopo la sconfitta alle provinciali del 2009, non puntava tanto a una vittoria in Regione (missione quasi impossibile) bensì a spianargli la strada alla candidatura a sindaco di Milano. Se infatti Penati avesse vinto contro Formigoni entro le mura cittadine (gli era già accaduto alle elezioni perse in Provincia contro Podestà), come negargli l’investitura più ambita? Non gli riuscì, ma la sua candidatura restò ugualmente in prima fila, benché non annunciata. Per questo l’ingresso sulla scena – a sorpresa – di Giuliano Pisapia provocò una reazione stizzita (e sbagliata) del partito, che puntò su un altro prestigioso candidato della società civile (Boeri) ingaggiando però al contempo una battaglia per affermare la supremazia politica del partito – ossia, alla fine, dello stesso Penati – nella capitale del Nord.
PENATI e il Nord, dunque, non Sesto. Ma anche Penati e le infrastrutture, i trasporti. Molti hanno sottolineato in questi giorni l’assoluta anomalia della celebre operazione condotta sull’autostrada Serra-valle tra la Provincia di Milano e l’imprenditore Marcellino Gavio, specie alla luce della successiva partecipazione di Gavio alla scalata Bnl. Ma, senzavolere nulla aggiungere ai fatti, è impossibile non vedere l’espansione degli interessi di Filippo Penati nell’area dei trasporti e delle infrastrutture e la presenza crescente dei suoi collaboratori diretti in questo campo. Il fratello del suo capo di gabinetto, Luigi Vimercati, venne nominato sottosegretario alle Infrastrutture nel governo Prodi (attualmente è senatore e segretario della commissione Lavori Pubblici). Il suo assessore in Provincia, Matteo Mauri, è oggi membro della segreteria nazionale del Pd, dove è responsabile nazionale del partito per infrastrutture, trasporti, casa ed Expo. Il suo giovanissimo pupillo milanese, Pierfrancesco Maran, da lui sostenuto massiccia-mente alle ultime elezioni comunali, è assessore alla Mobilità e all’Ambiente. Non in virtù di una contrattazione con Pisapia, così come non ci fu contrattazione per Luigi Vi-mercati con Prodi; ma all’interno di un evidente disegno di partito. Nulla da dire sulle persone. Ma in nessun partito accade che un solo gruppo controlli un’area così vitale di interessi. Soprattutto in quelli strutturati in correnti, come è noto, se l’esponente di un gruppo ottiene la responsabilità di un settore, subito si predispongono i bilanciamenti interni perché ve ne sia una gestione collegiale. Come mai questa progressiva eccezione? Anche perché, va notato, è nell’ambito di questa filiera che è stata assegnata la responsabilità di partito per il trasporto aereo a Franco Pronzato, il manager Enac oggi inquisito per corruzione.
La questione, dunque, è comprendere l’ampiezza e il senso del sistema, evitando il rito del capro espiatorio. Volendo fare un passo ulteriore, la questione è anzi, più in generale, quella del modello di politica, di partito. Perché è certo vero che la differenza fondamentale tra il centrodestra e il centrosinistra è che di fronte all’azione della magistratura scattano meccanismi culturali e di rispetto istituzionale che sono agli antipodi. Ma bisogna capire perché si debba per forza arrivare alla magistratura, perché i partiti, nel caso il Pd, non predispongano degli anticorpi interni. Perché chi solleva problemi di regolarità e di trasparenza nella quotidianità non sia vissuto come un aiuto prezioso per evitare al partito la gogna delle inchieste, ma sia considerato, per usare la famigerata espressione di Scajola, “un rompicoglioni”. Ecco il vero problema. E su questo varrà la pena intervenire successivamente.
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