Anche quest’anno la nostra città ha ospitato il Salone del libro usato, rassegna culturale italiana dedicata al libro fuori commercio e non solo. Centinaia di espositori hanno visto come protagonisti fumetti, locandine, stampe, vecchie riviste, libri antichi o semplicemente ottime occasioni per trovare romanzi di seconda mano a cifre irrisorie.
Ebbene sì: c’è ancora chi apprezza il gesto di sfogliare un libro, sentirne il profumo, di averlo sul comodino, nelle librerie…In un’Era dove tutto è azionato da un tasto, veicolato da uno schermo, bombardato di suoni c’è ancora spazio per queste iniziative, seppur poco pubblicizzate. Ed è proprio questo precario sistema informativo che mi lascia perplessa, per non dire amareggiata. I canali deputati all’informazione (tg, pubblicità, radio, giornali..) sembrano ormai dediti a divulgare notizie piene di “spessore culturale”: «Abbiamo fatto un giro per le bancarelle per scoprire cosa regaleranno quest’anno, a Natale, gli italiani», «Sposarsi a dieci metri di profondità si può» o ancora «Ex pupa si rifà il fondoschiena» e tanti altri comunicati edificanti. (Oppure si viene messi dinanzi al fatto compiuto come per la serata under 30 inaugurata al “Teatro alla Scala” di Milano lo scorso 4 dicembre, che ha visto inscenare la “Walkiria”di Wagner).
Ci si lamenta di questo popolo italiano che non legge, poco acculturato, pieno di veline, calciatori, tronisti ma non si fa niente affinché ciò cambi. Mi si potrebbe ribattere che l’interesse individuale spinge ad informarsi o meno sulle diverse iniziative culturali ma allora mi chiedo: perché un Dalì merita più pubblicità di una mostra sul Sacro Lombardo o di un Salone del libro usato? Possibile che anche la cultura debba sottostare alla triste legge “dell’essere alla moda”? Ma soprattutto, chi decide cosa sia “di moda” e cosa no?
Mi rendo conto di essere in qualche modo “di parte” in quanto studentessa universitaria in primis, e iscritta alla facoltà di lettere in secundis, e probabilmente risulterò un po’ anacronistica ma ritengo che anche in quest’ “epoca digitale”, in cui un cellulare può adempiere ad almeno cinque funzioni differenti, non bisogna rinunciare all’educazione per l’inchiostro, per la pagina scritta, per carta e penna… per la cultura.
Non rinnego la tecnologia e l’innegabile comodità che questa ha portato nella vita di tutti noi, non si torna mai indietro; però ammodernamento non significa dimenticarsi di quello che si è stati, perdere il gusto per il Bello e la capacità di apprezzare ciò che ci circonda in tutte le sue forme, come diceva Oscar Wilde «Beauty is a form of genius».
A proposito del connubio “cultura e tecnologia” vorrei segnalare un’iniziativa di questi giorni avviata nel social network più popolare sul globo (Facebook) : «difendiAMO LA CULTURA – Un libro nel profilo come scudo contro l’ignoranza». Sono conscia del fatto che non sarà la foto di una copertina di un libro ad acculturarci ma in un periodo come questo, in cui l’ignoranza ci governa -purtroppo nel vero senso della parola- in cui ci viene detto che la ricerca non serve, questo scudo è un primo passo verso un mondo che, spero, non dovrà più difendersi dall’ignoranza ma che attaccherà con la cultura.
Mi trovi perfettamente d’accordo,troppi eventi culurali passano inosservati a scapito di serate mondane a cui partecipano tronisti e dj ultrablasonati!
Complimenti per l’articolo!
SoleVerde
Ottimo articolo! Bell’esordio! :)
Nell’articolo c’è il passaggio <> in cui si ipotizza una contrapposizione tra una cultura “pubblicizzata” e un’altra cultura che verrebbe più trascurata. Forse è un’affermazione perfino ottimista, in quanto oggi nulla va di moda.
Vivendo a Milano ho l’orrore di constatare che il destino più comune di ogni manifestazione culturale è quello di essere segregata, ridimensionata, spostata dal centro dell’attenzione. Cosa sta succedendo alle librerie indipendenti? Cosa a quei monumentali chioschi di libri vecchi? Cosa perfino alle mostre di Palazzo Reale, cui viene effettivamente dato grande risalto pubblicitario?
Sarò banale, ma mi pare ormai la regola che il Salone del libro usato, come altre centinaia di scaffali di Milano, sia il santuario di venticinque indefessi lettori, che a Palazzo Reale si vedano sempre le stesse facce di scolaresche in astinenza da tv e che le catene di librerie debbano smerciare di tutto un po’ per stare in piedi. Il centro commerciale vicino a dove vivo (che pure ha un’ottima libreria) presenta alle folle facce lampadate mentre i libri del momento vengono presentati all’ora di cena in spazi più che intimi.
E’ come se la parola (o l’immagine) non fosse più leggera e mobile, ma un fardello malsopportato e scaricato, insieme a una dose di commiserazione, su pochi: a me sembra il peggio, si accresce solo il vuoto attorno alla cultura e la si ridicolizza come prerogativa di stereotipati “radical chic”.
I supermercati hanno visto lungo e ora ci forniscono qualche scaffale di letteratura digeribile per colmare il senso di colpa, per salvare l’apparenza di chi vorrebbe ma non vuole veramente. Gli altri, invece, sono in coda all’outlet.