La musica è morta?

Una nota rivista musicale ha pubblicato di recente un numero in cui raggruppa le cinquecento migliori canzoni di tutti i tempi. Ho voluto fare questa specie di maratona musicale, andandomi a cercare tutte quei pezzi presenti nella classifica che ancora non conoscevo, o che non ricordavo, o che non sapevo avessero quel titolo e fossero stati scritti da quell’autore. E’ stata una sensazione molto piacevole.

Da tempo cercavo qualcosa che mi risvegliasse da quel torpore musicale in cui ci ha confinato MTV e tutta la musica su commissione delle case discografiche americane. In mezzo a culi, tette, balletti, effetti speciali, abiti estrosi, video psichedelici, davanti all’apparenza che ha abbondantemente oscurato, se non eliminato, la sostanza, è ormai difficile rintracciare qualche elemento lontanamente riconducibile a suoni piacevoli. Il nostro povero orecchio si vede costretto ad essere continuamente colpito da suoni aspri, fastidiosi (mi viene subito in mente un a dir poco irritante “well, well, well” di una famosa pubblicità), spiacevoli e tutto fuorchè armoniosi. L’odierna selettività del mercato musicale ha plasmato le nuove produzioni (e, di conseguenza, i nostri gusti musicali) verso un suono ormai indefinito, che non si può neanche riuscire a giudicare. Melodie ripetitive e scontate che si susseguono ovunque voltiamo la testa, che non permettono di distinguere un artista da un altro, un genere da un altro, contribuendo a confondere il tutto, amalgamandolo in una sorta di omogeneità confusa. Ormai non si riesce neanche più a definirli generi musicali, o a trovar loro un nome, che possa evidenziare la loro unicità, o, perlomeno, una loro caratteristica.

La riflessione che viene da fare è che la musica ormai è morta; e già da tempo. Non ci sono più idee, non c’è più fantasia, non si vedono spiragli di rivoluzione, di novità, di cambiamento. Non si riesce a vedere una via d’uscita da nessuna parte. In un mondo basato sull’economia del mercato globale, questo si traduce in una crisi di settore, dalla quale si prova ad uscire attraverso un’opera di stordimento dell’acquirente, che è la giusta prerogativa al conseguente lavaggio del suo cervello, che viene preparato ad accogliere ciò che viene spacciato per novità come se lo fosse veramente. E’ per questo che andare a riascoltare i pezzi che hanno fatto la storia della musica potrebbe essere il primo passo per rendersi conto dell’ovvietà e della bassezza della merce che si vende al giorno d’oggi. Andando a ripescare i vecchi dischi e ascoltando le produzioni al loro interno, si riscopre l’amore per la musica che ormai ci stanno facendo passare.

Ascoltando questi pezzi si sente e si riscopre quella passione vitale che spingeva gli artisti a suonare, a trasmettere, a incidere per il gusto di farlo, a cantare per la voglia di esprimere qualcosa. Quello che si vede oggi è un mucchio di giovani di belle speranze, cresciuti nel mito della televisione, che prendono in mano gli strumenti (per i pochi che ancora lo fanno) per poter ambire ad un briciolo di successo e ricevere un decimo dello stipendio delle rockstar. Una musica che nasce da queste premesse non può garantire che poche emozioni. Purtroppo quello che si riscopre sotto il panorama musicale è solamente il sintomo di una tendenza che caratterizza tutta l’epoca che stiamo vivendo. La passione del vivere, il legame con il piacere, con il benessere, con la realizzazione, con i valori e gli ideali, sono elementi che si sono inchinati ad una bieca sopravvivenza alla ricerca del successo. Penso che questo sia uno dei sintomi più avvilenti della nostra generazione e della nostra epoca. Una sensazione come di vuoto, di mancanza di prospettiva, di speranza, di cambiamento. Non sembra esserci più niente di nuovo da cercare, niente di nuovo da scoprire.

E, probabilmente, l’unica cosa da fare quando non si riesce ad andare avanti è riscoprire il proprio passato.