Ecco perché il PD non vuole #Rodotà

di Pierpaolo Farina

“Ma io mi domando perché il Pd non vuole Rodotà? Cos’è, non si fidano? Forse perché Rodotà è stato deputato del Pci, ministro ombra di Occhetto, co-fondatore, presidente e parlamentare europeo del Pds? Più di così cosa doveva fare? Fare da scudo umano a Togliatti nell’attentato del 1948?”

Le parole di Maurizio Crozza interpretano alla perfezione il sentimento di almeno il 60% del popolo italiano. Quello che, nonostante 57mila firme e manifestazioni di piazza, pare non essere minimamente considerato dai cosiddetti suoi rappresentanti di casa PD. Sì, perché, qualora se lo fossero dimenticato, stando all’art.67 ciascun deputato rappresenta tutta la Nazione, non solo i propri elettori.

Sul perché il PD non voglia Stefano Rodotà io una tesi ce l’ho. E  ho anche qualche fatto a suo sostegno. Ma spero di essere velocemente smentito. Tutto ha inizio nel 1991, quando esce un libro di Gianni Barbacetto ed Elio Veltri, “Milano degli Scandali”, che smontava il mito di Milano capitale morale del paese ben prima dell’arresto di Mario Chiesa. La prefazione a quel libro era firmata da Stefano Rodotà, da poco presidente del neonato PDS, il quale scriveva:

Spero almeno che qualcuno, leggendo questo libro, si vergogni, non dico si ravveda. E molti altri comincino a rendersi conto che proprio da qui deve cominciare una reazione. Che la ricostruzione della moralità pubblica è, oggi, il più ricco dei programmi politici, e la più grande delle riforme.”

In quel libro veniva anche messa sotto accusa la gestione migliorista del PCI di Milano, cosa che avrebbe portato poi il PDS alla prima piccola vendetta contro il suo presidente così poco malleabile e indipendente: il 3 giugno 1992 gli preferì Giorgio Napolitano, capo dei miglioristi, alla presidenza della Camera. Sono fatti così, i post-comunisti: compagni e fratelli un minuto prima, ma se gli fai notare che stanno sbagliando, ti linciano senza troppi complimenti.

Ventidue anni dopo quel libro e quella prefazione, abbiamo potuto amaramente constatare che nemmeno l’avvento al governo degli eredi di Enrico Berlinguer ha portato alla “ricostruzione della moralità pubblica”, anzi, per certi versi ha aggravato la situazione. Per usare le parole di Enzo Biagi poco prima di quel 27 marzo 1994 che avrebbe sancito la nascita della Seconda Repubblica:

Tutto dovrebbe cambiare: però, di solito, nel nostro paese, mutano di posto i suonatori, ma la musica resta sempre la stessa. C’è stato un tale rimescolio di candidati, dalle vecchie liste ai nuovi simboli, con un tripudio di conversioni da sinistra a destra e viceversa, che la via di Damasco, se facesse parte della topografia nazionale, dovrebbe essere gremita come Piccadilly Circus la notte di Capodanno.”

Dunque, quello che non piace all’attuale dirigenza del PD, per metà ex-pci e per l’altra metà ex-dc, è la sua indipendenza e la sua intransigenza morale: non è tipo da piegarsi ai ricatti, anche perché non ha scheletri nell’armadio che possano piegarlo.

Ma penso che quello che non gli sia stato perdonato è stato mettere per iscritto, in un piccolo libretto, le seguenti parole a proposito di Enrico Berlinguer e della Questione Morale:

“Quando gli ex comunisti, invece di riflettere seriamente sulla loro storia, cominciarono a chiedere scusa a destra e a manca, omisero di fare le loro scuse proprio a chi aveva colto questo rischio mortale per la democrazia italiana: Enrico Berlinguer. In quella sua tesi, associata com’era ad una richiesta di austerità, si volle vedere un’idea triste della politica, in contrasto con la spensieratezza dell’incipiente “Milano da bere”; e la rivendicazione di una diversità del Pci come una mossa d’orgoglio che rivelava la pretesa di essere comunque migliori degli altri. Interpretazioni entrambe riduttive, appiattite com’erano su contingenza e convenienze, mentre oggi possiamo cogliere il vero nocciolo di quella proposta: la sottolineatura del carattere proprio di un partito soprattutto per renderlo consapevole della responsabilità che gli spettava, come una indicazione volta ad evitare che si consolidasse quella che appariva come una pericolosa anomalia italiana. Nessun discorso nostalgico, allora, ma la presa d’atto dell’accantonamento colpevole di un tema politico centrale, causa non ultima della crisi di cui siamo vittime.

Ecco, secondo il mio modestissimo parere, Stefano Rodotà paga queste parole sulla Questione Morale e su Enrico Berlinguer. Potrò sbagliarmi, ma di altri motivi sensati non ne vedo.

P.S. Intanto siamo a quota 57mila per Rodotà Presidente. Continuate a firmare.