Il sindacato, i bastoni tra le ruote e la modernità sul lavoro targata Monti

In un articolo del 1935 uscito sul “Bargello”, foglio culturale del fascismo, si legge: “Che le categorie si difendano ma che non mettano i bastoni tra le ruote all’ingegno. Che non si considerino costituite per l’eternità. Che non pretendano di impedire ogni mutamento del tono sociale di vita in nome dei loro interessi. Che si rassegnino a scomparire dalla faccia della terra quando l’attuazione di qualcosa di più bello o di più nuovo lo esige.”

Linguaggio affabulatorio e disinvolto. Ce n’è per tutti. A parlare non è il vecchio governo Berlusconi, per interposta persona del Ministro Sacconi, figuriamoci. No, non ditelo a voce alta, potrebbero prendervi per matti, ma a parlare un linguaggio molto simile a questo, quanto meno nei contenuti, è il nuovo governo dei tecnici. Con un certo aplomb, ovviamente, con sobrietà, come gli si confà. Nella sua imperturbabile onnipotenza e imparzialità liquida le categorie, cioè i sindacati, in nome della modernità della politica, della globalità dell’economia, della flessibilità del lavoro. Nella sua necessità, tutta tecnica ed economica, di non tagliarsi fuori dalle masse, ma anche di non farsi casta (a parole), il governo ha nobilitato perfino l’idea della poltrona. E così ha seminato ovunque poltrone, rigorosamente d’elite, cui ha posto di guardia il denaro, cioè le banche, per riservarsele senza offesa nessuna alla libertà, anzi ergendosi a sostenitore del merito, della correttezza, della obiettività. Che i lavoratori si abituino, dunque, a cambiar mestiere, se occorre. Il posto fisso è noioso. A razionalizzare tutto ci pensiamo noi tecnici. A perfetto agio in mezzo alla crisi economica, il governo in doppiopetto appare molto più baldanzoso e sicuro di sé perfino degli industriali e di Confindustria.

Eppure ci sono stati tempi, per esempio nel 1945-1946, quando al governo non c’era Monti ma Parri (prima) e De Gasperi (poi), e al ministero del lavoro non c’era Fornero ma un socialista sconosciuto ai più, un certo Barbareschi. Tempi in cui i rapporti tra istituzioni e lavoratori, tra governo e parti sociali, erano animati da dinamiche un po’ diverse. L’Italia veniva da una fase drammatica, cruciale, forse perfino più di quella da cui viene il paese oggi. Veniva dalle macerie della guerra, dalla crisi dell’industria, del commercio, di tutto l’apparato strutturale economico. Anche allora il commercio internazionale metteva totalmente in discussione il mercato nazionale. Gli italiani, molto più di oggi, convivevano da mesi, anzi da anni, con la povertà. Dopo i massacri e le privazioni belliche, c’era assolutamente bisogno di pace sociale, non di conflitto. Proprio come oggi. Servivano misure contro la disoccupazione e scelte sull’adeguamento dei salari al costo della vita, per dare inizio alla svolta della ricostruzione. Proprio come oggi. Ma le parole dei protagonisti di allora, le soluzioni prospettate, erano ben diverse. Sentite cosa scrive non Togliatti, ovvero il capo del maggiore partito della sinistra, il Pci, e neppure Di Vittorio, cioè il segretario della Confederazione generale del lavoro, ma niente meno che un Conte, un Cavaliere del lavoro, un membro del partito liberale, di nome Danilo De Micheli. Non un imprenditore qualunque ma il presidente dell’Associazione industriali della provincia di Firenze.

Nell’ottobre 1945, in un articolo dal titolo “Problemi d’oggi”, scriveva costui:

“Due grossi problemi sul terreno sociale polarizzano oggi la nostra preoccupazione e richiedono il nostro totale impegno. Primo: il problema della disoccupazione e del riassorbimento dei reduci. Secondo: il problema di trovare il modo di migliorare l’esistenza dei lavoratori”
(“Gazzetta economica”, n. 1, 12 ottobre 1945).

E qualche tempo dopo, addirittura in qualità di vice-presidente della Confindustria nazionale aggiungeva:

Gli accordi salariali significano avere risparmiato al paese, le conseguenze di uno sciopero generale. Se pure questi accordi richiedono un sacrificio a tutte le aziende, questo va considerato il prezzo di un ordine e di una concordia sociale il cui valore è inestimabile.”
(Gli accordi salariali, “Gazzetta economica”, n. 5, 9 novembre 1945).

La crisi, forte, drammatica, che morde i calcagni al mondo del lavoro, c’era allora, come c’è oggi. Ma a sentire i discorsi di oggi, non sfiora anche a voi il dubbio che nel rapportarsi ai cittadini e ai lavoratori, forse gli industriali e la Confindustria, ma anche il Presidente del Consiglio e il Ministro del Lavoro di allora fossero ben più lungimiranti e molto meno arretrati di quelli di oggi?

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