23 marzo 2002: quando tutti (anche gli ex-dc) difendevano l’art.18

23 marzo 2002: sono passati 10 anni dall’imponente manifestazione organizzata dalla CGIL, allora a guida Cofferati, contro il Governo Berlusconi che voleva introdurre “la libertà di assumere”, abolendo l’art.18.

Se andiamo a rileggere le cronache del tempo, insieme alle foto di quei 3 milioni di lavoratori che invasero Roma, ci rendiamo subito conto di una cosa: in piazza c’erano tutti, dai DS fino a Rifondazione. La FIOM non era additata come un manipolo di estremisti che tenevano in ostaggio la CGIL, anzi, era proprio il sindacato che portava avanti la lotta (altro che le timidezze della Camusso al riguardo).

E fanno sinceramente sorridere le parole di Eugenio Scalfari, a commento della manifestazione: a rileggerlo, in questo editoriale, sembra un’altra persona. Bacchetta la CISL di Pezzotta, rintuzza Schifani che parla di clima d’odio, difende a spada tratta l’art.18. Così come non sembrano nemmeno loro Rutelli e Fassino, che plaudono alla manifestazione. L’unico, e sembra un miracolo, che la pensa (quasi) allo stesso modo pare essere D’Alema, ai tempi il grande antagonista di Cofferati, che pure quel giorno, da Presidente dei DS, si schierò ventre a terra con il suo partito a favore dell’art.18. Basta leggersi questo articolo per farsene una ragione.

Oggi invece l’art.18 è diventato il grimaldello con cui il PDL cerca di far saltare il PD e produrre un riassembramento delle forze politiche: in sintesi, formare la nuova DC del 21° secolo, a cui sta lavorando Casini da un lustro. Tagliare le ali estreme di PD e PDL e convergere tutti insieme appassionatamente in un unico soggetto che occupi stabilmente il centro e impedisca magari per qualche decennio l’alternanza.

Bersani, che cerca di rimanere in sella, ma è sempre più precario, sta facendo la fine di Berlinguer: la crisi economica come il terrorismo, Monti come Andreotti, che non cedeva nulla al PCI, sotto ricatto perché la sfiducia avrebbe significato l’accusa internazionale di fiancheggiare il terrorismo. Oggi Bersani non può sfiduciare Monti, ma più lo sostiene, più si logora. E il risultato sarà identico a quello del 1979, quando il PCI perse metà dei voti guadagnati tre anni prima e venne ricacciato all’angolo dal nuovo asse DC-PSI: sulla questione dell’art.18 Bersani rischia l’implosione.

Per uscire dall’angolo, il leader del PD dovrebbe puntare su quello che davvero frena gli investimenti esteri e pesa come un macigno sulla ripresa economica: corruzione, criminalità organizzata, evasione fiscale e burocrazia. In una parola: la questione morale. Se sfiduciasse Monti su questo, ricompatterebbe il fronte della Sinistra e vincerebbe a mani basse le elezioni. Ne avrà la forza?

2 commenti su “23 marzo 2002: quando tutti (anche gli ex-dc) difendevano l’art.18”

  1. Non si combatte una battaglia lunga e difficile, come
    quella che si preannuncia per svuotare di contenuti l’art.18, solo per poter
    licenziare qualche centinaio, o poche migliaia, di lavoratori dipendenti.

    Sarebbe stato facile offrire alle imprese qualche
    compensazione per tenerseli. Sarebbe stato facile accettarla e lasciar perdere.

    Qui sono in gioco, evidentemente, decine di migliaia di
    licenziamenti. E qualche centinaio di migliaia di lavoratori che, con la
    semplice minaccia della perdita del posto, diventano ricattabili. Ricattabili
    senza alcun limite, senza alcun pudore, senza dignità. Sarà facile trasferirli
    da una città all’altra, adibirli a mansioni dequalificanti, pretendere da loro
    straordinari non pagati, farli lavorare trascurando le normative di sicurezza..
    Saranno padri che torneranno a casa con gli occhi bassi, umiliati e frustrati,
    saranno giovani madri che dovranno abbozzare imbarazzati sorrisi alle stupide
    avances di un qualunque capufficio, perché a casa ci sono i bambini a cui dar
    da mangiare, e non si possono correre rischi…

    E, comunque, decine di migliaia di licenziamenti.

    Probabilmente cinquantenni, a 15 o 20 anni di distanza da
    una piccola pensione. Alcuni troveranno un altro lavoro (ma quanti? Non sei più
    giovane, non hai competenze particolari e poi, se ti hanno licenziato,
    evidentemente un motivo ci sarà stato…). Alcuni se la caveranno, magari con
    l’aiuto di parenti o amici, magari con lavoretti in nero. Alcuni no, non se la
    caveranno. Arriverà qualche provvidenziale malattia psicosomatica a portarli
    via da una vita che, ormai, non vale più la pena vivere.

    Alcuni, certo, si suicideranno. Sono cose che succedono.

    Molti di loro hanno dei figli e questi, certo, non
    potranno più avere il futuro che immaginavano. Certo, alcuni faranno da soli,
    saranno moderni “imprenditori di se stessi”, avranno successo. Alcuni
    troveranno libero uno dei posti di lavoro lasciati dalla generazione che li ha
    preceduti, saranno contenti e poi, magari fra trent’anni, seguiranno lo stesso
    destino dei loro genitori.

    Alcuni no, non ce la faranno. Saranno disadattati, o
    criminali. Moriranno giovani, o uccideranno altre persone. Ancora morti.

    Chi ha pianificato tutto questo, ne è pienamente
    consapevole. Ha pianificato anche i morti. Non li vorrebbe, certo, ma in
    qualche misura sono delle conseguenze inevitabili di un radicale processo di
    ristrutturazione del mondo del lavoro. Un prezzo da pagare per mantenere in
    vita il “sistema economico” perché, e questo è il nostro limite, non
    c’è nessuno capace di immaginarne un altro; dietro c’è solo l’anarchia, il
    buio, e le classi dirigenti hanno paura del buio, come i bambini.

    Chi ha pianificato tutto questo è come un generale, il
    cui compito è quello di pianificare la battaglia e uscirne vittorioso, facendo
    una stima delle perdite, degli inevitabili danni collaterali, ed accettandoli
    con la rassegnazione del professionista, del tecnico, dell’uomo che è chiamato
    a più alte responsabilità per difendere “il sistema”. Non è un uomo
    che ama la guerra, non l’ha voluta lui. Non che l’abbia scelto lui, il sistema.
    Ma non è che qualcuno abbia proposto valide alternative, e allora…

    E questo è il punto più drammatico. La scelta a cui
    nessuno di noi può sottrarsi. O accettiamo il conto delle perdite, e allora la
    finiamo di lamentarci e, come tutti i soldati in battaglia, ci limitiamo a
    sperare che la pallottola nemica, sparata a caso, colpisca un altro e risparmi
    noi, o non lo accettiamo.

    Disertiamo. Passiamo all’altro schieramento. Troviamo un
    altro “sistema” in cui credere. Troviamo un pensatore che sappia
    immaginarlo, e in giro non se ne vedono. O troviamo un’idea romantica, il sogno
    di un mondo migliore, e combattiamo per quello. Ma la guerra c’è comunque, non
    possiamo sottrarci, non c’è un posto in cui nascondersi. E, in guerra, sparare
    al generale nemico, e magari rischiare la propria vita per farlo, non è un crimine,
    è un dovere, è un gesto eroico. Forse dobbiamo ripensare ai giudizi che abbiamo
    dato sul terrorismo degli anni settanta, all’idea del delitto politico rispetto
    all’omicidio comune. Forse dobbiamo avere il coraggio di ripensare alla facile
    esecrazione che abbiamo riservato a chi ha sparato ai giuslavoristi che avevano
    pianificato le prime riforme del mercato del lavoro. Erano i primi generali che
    combattevano per difendere il sistema, e i primi idealisti che sceglievano di
    combattere per cambiarlo. Perché è allora che la guerra è cominciata.
     

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