La Cina di #Jinping, dopo il XIX congresso del PCC

Il XIX Congresso del Partito Comunista Cinese si è chiuso pochi giorni fa, sancendo la scontata riconferma per il secondo mandato da Segretario Generale di Xi Jinping, sessantaquattrenne leader dell’ex Celeste Impero dal 2012.

Il processo congressuale, cominciato già un anno fa e descritto da molti media come una cerchia esoterica priva di discussione e ratificante le decisioni del Presidente, ha visto in realtà la partecipazione a tutti i livelli locali degli 89 milioni di iscritti al PCC, la più grande organizzazione politica del pianeta, i quali hanno discusso l’introduzione del Segretario Generale e votato i 2280 componenti dell’assise quinquennale tenutasi a Pechino.

La cerimonia conclusiva, svoltasi nella Grande Sala del Popolo, sancisce l’ingresso nella Costituzione del Partito del pensiero di Xi Jinping, ovvero del «Socialismo con caratteristiche cinesi per una Nuova Era», che andrà ad aggiungersi al marxismo-leninismo, al pensiero di Mao Zedong e a quello di Deng Xiaoping (unici due leader nominati esplicitamente nella carta prima di Xi), oltre che alle “Tre rappresentanze” di Jiang Zemin e allo “Sguardo scientifico sullo sviluppo” di Hu Jintao.

Popolarissimo in casa (il 92% dei cinesi ha fiducia in lui, quando nel 2002 la popolarità del governo cinese era scesa sotto il 50%), la Cina che Xi Dada (“zio Xi”, come viene inusualmente chiamato in patria)  vuole costruire è basata su quattro principi complessivi: una «società moderatamente prospera», che elimini definitivamente la povertà (solo nel quinquennio precedente il governo cinese ha sollevato dal fardello della povertà 60 milioni di persone, che vanno a sommarsi con gli oltre 700 milioni di cinesi degli scorsi trent’anni); l’intensificazione delle riforme; l’affermazione di uno stato di diritto socialista (ben lungi dall’essere completato, come ben riportato da John Garrick); l’amministrazione rigida del Partito, il quale rimane saldamente alla guida del Paese della democrazia socialista (gli otto partiti ammessi più il Partito-guida).

Come si traducono in concreto questi principi? Quali saranno le sorti del gigante asiatico a quasi settant’anni dalla proclamazione della Repubblica popolare?

Il presidente Xi non pare affatto intenzionato a cedimenti in favore della «democrazia borghese basata sul libero mercato e sull’attività capitalista»: le imprese, specie quelle straniere, sono sempre più controllate dai quadri del Partito; queste stesse dichiarano in un sondaggio effettuato in gennaio dall’American Chamber of Commerce in China che si sentono “poco benvenute in Cina” (80%) e che “non ci saranno aperture verso il libero mercato” (60%). L’espansione dell’imprenditoria privata, sia domestica che straniera, sembrerebbe dunque frenata dopo l’accelerazione molto controllata avutasi negli scorsi trent’anni. Complice di ciò non è soltanto il sempre più penetrante diritto del lavoro cinese – che vede riconosciuti diritti specifici ai lavoratori e compiti di supervisione ai quadri di Partito anche nel settore privato, spesso finanziato dalle grandi agenzie di Stato come l’Accademia delle Scienze – ma anche le profonde campagne anti-corruzione che hanno colpito non soltanto uomini forti del Partito ma anche imprenditori-oligarchi (da funzionari di Apple al presidente di Anbang).

Il settore pubblico continua a essere determinante nell’economia cinese e Xi è intenzionato a riformarlo per garantire efficienza e prosperità. I dati possono parlare da soli: il 40% del PIL nel settore non-agricolo è prodotto da SOEs (state-owned enterprises, imprese di proprietà statale), ma, aggiungendo ad esse anche quelle dove lo Stato ha partecipazioni rilevanti, si arriva a circa il 50%. Le 12 più grandi aziende cinesi restano di proprietà dello Stato, così come le grandi banche.

Il «sogno cinese» del presidente Xi, quel «grande ringiovanimento della nazione» propugnato sin dal 2012 dalla dirigenza cinese, non è però lungi da contraddizioni, come lungamente esposto dallo stesso Xi nella relazione d’apertura del Congresso. Una su tutte, la disuguaglianza fra aree rurali e aree urbane, raffigurata dall’aumento dell’indice Gini sulle disuguaglianze dallo 0.30 nel 1978 allo 0.42 del 2012. La leadership cinese è intenzionata a rafforzare il benessere entro i propri confini, stimolare la domanda interna anche per far fronte a una crescita rallentante (+6,7% di PIL nel 2017) e modernizzare le aree più interne del Paese grazie anche ai grandi programmi di apertura, uno su tutti il One Belt One Road Initiative, detta anche Nuova via della seta.

Questi cinque anni dimostreranno quanto il pragmatismo di Xi possa continuare a innervare la società della seconda economia mondiale, confermando o smentendo le aspettative di coloro che sperano in un collasso della Cina o di coloro che credono, seppur fra contraddizioni, che l’-ismo che sta tentando di costruire la Cina sia uno solo, come ricordato da Liu Shiyu.