20 gennaio 2009, Barack Obama, ex senatore, diventa il primo Presidente afroamericano degli Stati Uniti. I democratici tornano al governo, complice l’assenza di un leader repubblicano al pari di Bush junior, dei suoi petrodollari, della potenza della sua famiglia. Obama è l’innovazione, l’apertura verso un’ignota era , il simbolo dell’abbattimento dei muri del pregiudizio.
20 gennaio 2017, Donald Trump si insedia alla Casa Bianca. Bianco, repubblicano, miliardario. Le sue armi preferite sono la provocazione, i toni forti, l’estremismo. Razzismo, incoerenza, ignoranza le sue peculiarità.
Seppur (apparentemente) in contrasto, questi due personaggi della politica statunitense passata, presente e futura, sono legati: il secondo è una conseguenza, inaspettata per i più, della delusione generata in una parte dell’elettorato delle scelte politiche del primo. In mezzo, la disastrosa candidatura di Hillary Clinton, dal programma tradizionalista (e non innovativo) al caso mailgate. Ma andiamo con ordine.
Obama si presentò prima alle primarie e poi alle elezioni con un programma chiaro e preciso: affrontare la crisi economica causata dalla bolla dei mutui sub-prime, ricostruire le forze armate (“adeguandole alle sfide del 21° secolo”), combattere la discriminazione, incentivare la produzione di energia eco-sostenibile, porre fine alla guerre in Iraq e Afghanistan, aprire il dialogo con l’Iran, fermare il genocidio nel Darfur e chiudere il conflitto in Congo; il pezzo forte sul piano interno era un’assistenza sanitaria accessibile a tutti gli americani.
Si trattava di un programma politico liberale, velatamente progressista, tipico della “sinistra” nordamericana. Un orientamento riproposto, con qualche leggera modifica in campo estero, nel 2012, quando vinse il confronto con Romney, perdendo però per strada quasi 4 milioni di voti, pari al 2% dei consensi.
Eppure erano molti i punti interrogativi che Obama si stava trascinando dietro con il passare del tempo. Sul piano interno, il tema della sanità venne affrontato con la riforma del 2010, rinominata “Obamacare” dalla stampa, che doveva garantire, e in effetti così è stato, una maggiore copertura sanitaria.
In base a questa riforma, ciascun cittadino USA oggi deve dotarsi di un’assicurazione sanitaria, pena il pagamento di una multa, nessun ente assicurativo può rifiutarsi di stipulare una copertura, mentre lo stato federale si impegna a garantire sussidi legati agli stipendi. Quasi una ventina di milioni di persone ha potuto usufruire di una assicurazione sanitaria. Non tutti ne hanno però tratto beneficio: molti dipendenti delle catene di fast food, ad esempio, furono costretti a rinunciare alle vecchie polizze assicurative (più vantaggiose perché meno complete, vista anche l’età media degli assicurati) per delle nuove che prevedono piani di copertura maggiori di cui però potrebbero non usufruirne mai. Il punto più discusso poi fu quello dei costi complessivi, che potrebbero, nel lungo periodo (dieci, quindici anni) diventare insostenibili.
Notevoli finanziamenti sono stati devoluti poi a favore dell’istruzione con l’American Graduation Initiative, una riforma che aveva lo scopo di accompagnare lo studente nel suo percorso formativo anche dopo la scuola. Nel giro di poco tempo questi finanziamenti hanno subito un forte ridimensionamento e l’AGI si è configurato come uno dei primi fallimenti della presidenza Obama.
Lo stesso si può dire per la svolta green in campo industriale. Riguardo alle politiche sociali, Obama avrebbe potuto rappresentare un vero punto di riferimento per gli immigrati, le minoranze etniche che erano stati in grado di farlo vincere nei due confronti. Eppure non abbiamo assistito, nonostante i progetti legislativi proposti, ad un svolta decisiva contro la discriminazione. Durante il suo mandato sono cresciuti notevolmente gli scontri razziali, in cui la polizia quasi mai ha mantenuto il ruolo super-partes che dovrebbe avere. La condizione di lame duck, “anatra zoppa”, è stata meschinamente usata dagli avversari politici per boicottare, su tutte, la legge che limitava la circolazione delle armi. Gli scontri a Dallas, Ferguson o Charlotte sono più che noti: faide a sfondo razziale sotto la reggenza di Presidente afroamericano sono un fatto che lascia alquanto attoniti. Il discorso pronunciato a Dallas, “Il razzismo non è finito. I pregiudizi rimangono, tutti nella vita ci imbattiamo nell’essere bigotti a un certo punto delle nostre vite. Se siamo onesti, siamo in grado di sentire i pregiudizi dentro di noi“, sembrò ammettere la propria impotenza sul tema.
Nel campo della Difesa, inoltre, il caso Wikileaks, con la rivelazione di informazioni sensibili ad opera di Snowden, Assange e Manning, sono state terreno fertile per le offensive repubblicane, benché sicuramente positiva sia stata la commutazione di pena di Chealsea (fu Bradley) Manning, che, dopo aver tentato due volte il suicidio, vive in condizioni psico-fisiche precarie in carcere.
In campo internazionale, la politica estera di Obama ha avuto effetti disastrosi, segnando in modo irreversibile la situazione geo-politica mediorientale ed europea. A partire da quella che impropriamente fu subito ribattezzata “la primavera araba”, con la caduta dei principali regimi dell’Africa del nord, tu tutti Gheddafi e Mubarak, verso i quali gli USA hanno mantenuto un atteggiamento ambivalente, fino ai finanziamenti di armi e denaro in Yemen, Siria e Libano, per poi approdare verso un vuoto subito riempito da altre potenze.
Gli USA infatti si sono piano piano ritirati, senza ricostruire nessuna delle macerie che avevano causato, né stabilizzando le aree in cui decidevano il disimpegno. Decine di migliaia gli sfollati, i feriti innocenti, nessuno dei quali assistito. Ben presto si formarono i primi esodi verso il nord del Mediterraneo: Italia, Grecia, Spagna e Francia hanno finito col diventare le principali mete di questi nuovi flussi migratori generati dalla guerra, che in alcuni casi proprio quei paesi avevano causato, o in prima persona o restando neutrali.
Un esodo coinciso con l’instaurazione di uno dei regimi più sanguinari dell’epoca contemporanea: il Daesh, impropriamente conosciuto come Stato islamico, che ha messo radici in Iraq, Siria, Yemen, Libia. Prontamente sottovalutato dallo staff di Obama, che aveva giudicato l’ISIS come una minaccia secondaria, ben presto arrivò l’ammissione di colpevolezza e un precipitoso dietrofront: “L’ISIS è un’emanazione diretta di Al-Qaida in Iraq che è stata generata dalla nostra invasione. È un esempio di conseguenza indesiderata, ed è per questo che dovremmo in generale prendere bene la mira prima di sparare.”. Una dichiarazione che suona strano, se pronunciata dallo stesso uomo che ha rivendicato per anni, e continua ancora oggi, l’uccisione di Osama Bin Laden ed è stato insignito nel 2009 del Premio Nobel per la Pace.
Si potrebbero citare tanti altri casi in cui le decisioni di Obama hanno portato a conseguenze nefaste, tra cui la mancata chiusura di Guantanamo, l’atteggiamento ambiguo con Russia e Turchia e la perdita del principale punto di riferimento nell’Unione Europea, cioè il Regno Unito.
Non ci sono ovviamente solo le ombre. Tra le note positive possiamo annoverare la ripresa economica e la fine delle ostilità, che apparivano oramai anti-storiche, verso Cuba. Sul primo punto, benché abbia ereditato una situazione economico-finanziaria disastrosa, Obama è riuscito a mantenere un tasso d’inflazione basso, ha tagliato di due terzi il deficit federale, ha ridotto il tasso di disoccupazione e fatto crescere le esportazioni, dato non banale per gli Stati Uniti. Ci sono stati, inoltre, un genereale miglioramento del prezzo dei titoli azionari e la crescita dell’occupazione.
Tuttavia la partecipazione al mercato del lavoro è decisamente calata, e ciò attenua i successi ottenuti sul fronte della disoccupazione. Per quanto riguarda il bilancio, Obama vistosa la riduzione del deficit: ereditato da Bush nel 2009 per una cifra di 1.400 miliardi di dollari, il 47,4% del bilancio totale, Obama lo portò nel 2015 a 438 miliardi di dollari, il 12,5%. La ricetta economica di Obama, quindi, fondata su un approccio difensivo e prudente, non si è rivelata soltanto un salvagente temporaneo ma un buon punto di partenza.
Per quanto concerne la fine dell’embargo nei confronti di Cuba, le scelte del Presidente uscente sono state più di carattere umanitario, che politico o economico. La riapertura dei mercati verso Cuba sono un segno di (doverosa) maturità, che altri suoi predecessori non sono stati in grado di cogliere.
Complessivamente, Obama ottiene a fine mandato il consenso del 52% degli elettori americani, il più alto della sua presidenza. Un trend mantenuto anche a meno di un mese dalle elezioni, che però non è bastato per l’elezione a Presidente del suo ex-Segretario di Stato, nonché ex-first lady, Hillary Clinton.
La vittoria di Trump non è stata un caso, ma il risultato logico di otto anni condotti con atteggiamenti ambivalenti, scelte sociali discutibili, seguendo una progressiva mutazione del Partito Democratico da “Yes, we can” a “Maybe, we could”. Certo, non tutte le colpe sono imputabili a Obama. Emerge, però, che la parte elettorale che ha permesso a Trump di trionfare è stata quella degli over-45, coloro che, da un giorno all’altro, si sono trovati senza lavoro oppure faticano ad arrivare alla fine del mese. In una parola: gli emarginati.
Qualcosa che la “sinistra”, non solo nord-americana, pare essersi dimenticata da un po’ troppo tempo.
Più ombre che luci.
E’ stato un fallimento.