#Brexit: un racconto da Londra

È passato un mese esatto dal referendum sulla Brexit.

Un piccolo aneddoto può spiegare l’atmosfera che si respira al di là della Manica. La scorsa domenica mi sono concesso un pomeriggio da turista alla Tower of London, tra gruppi organizzati e guide in costume. La mia guida, dallo humour fin troppo British, voleva sapere le nazionalità del suo gruppo: per lo più americani, accolti da un sagace “Welcome home”; poi chiede quanti fossero europei, pochi per la verità. Infine, è il turno dei britannici, che fanno esplodere un sonoro urlo di esultanza. Al che, giustamente, la guida chiede: “Perché non avete alzato la mano prima? Siamo ancora in Europa!”.

Al di là delle battute, questa è la sensazione che si prova nelle terre della Regina: qualsiasi cosa avverrà in futuro, al momento siamo ancora in Europa.

Perché sì, tralasciando la speculazione prodotta nell’ultimo mese, il Regno Unito è ancora nella UE. Certo, il nuovo esecutivo May ha un’impronta ben precisa: uscire al più presto (e nel modo meno doloroso) dalla UE, perché i cittadini si sono espressi e perché l’establishment politico che ora ha preso il potere è quello più schiettamente conservativo. È conservativo, però, nel senso più populista che l’aggettivo possa assumere; per quante somiglianze, fisiche e politiche, si possano ricondurre tra la May e la Thatcher, quest’ultima sul fronte europeo aveva un atteggiamento diverso: all’epoca il mercato unico era un’esigenza specifica ed era soprattutto lo strumento per la realizzazione di progetti politici di più ampio respiro. Non illudiamoci, però, coi ricordi: il Regno Unito è sempre stato alla finestra, osservando gli sforzi propulsivi del nocciolo continentale e sempre pronto a esercitare le clausole di opt-out per non accettare certi vincoli europei.

Credo, però, che il racconto per le strade di Londra sia in questo momento più utile di molte speculazioni per comprendere la situazione quotidiana. In questo periodo ho la fortuna di frequentare le aule della London School of Economics. I professori dei dipartimenti di Law e di International Relations sono per lo più stranieri, provenienti soprattutto da altri paesi europei. Sono anzitutto tecnici e non politici e in questi anni di vita londinese hanno abilmente imparato l’arte del pragmatismo. Infatti, giungono quasi tutti alla stessa conclusione: le regole ora applicabili in virtù dell’appartenenza alla UE lo saranno anche in futuro. In sostanza, cambierà la forma dell’atto legislativo, ma appositi trattati tra il Regno Unito e la UE saranno stipulati, inglobando quella normativa già oggi in vigore. Pragmaticamente sarebbe la soluzione migliore: gli eventuali danni, da una parte e dell’altra, sarebbero minimizzati, ma dal punto di vista politico sarebbe indiscutibilmente un suicidio. Si aprirebbe la strada a un esodo di altri paesi euroscettici, con la prospettiva di rompere un legame discusso, ma conservandone tutti i benefici. È proprio quello che Juncker vuole evitare, ma che alternativa propone?

È importante riferire le voci che circolano a Londra, perché la capitale è un unicum rispetto al resto del paese, per il suo carattere internazionale e per il suo dinamismo. Incontro tanti ragazzi che sono qui a lavorare o a fare internships.

Ne incontro alcuni che lavorano nelle banche di investimento della City. Sono esaltati, con l’aria di Gordon Gekko; è comprensibile, perché vedono degli stipendi decisamente più alti sia della media italiana sia di quella londinese, nonostante i ritmi di lavoro estenuanti. Mi parlano di finanza mentre prendiamo un drink allo Shard, dove in quindici minuti capisci quante semplificazioni si raccontino ogni giorno sulle diseguaglianze sociali e quanto invece la realtà sia più complessa. Siamo al trentaduesimo piano di quello che è ancora per il momento il palazzo più alto della UE e vediamo Londra illuminata di notte. Mi indicano i vari palazzi delle banche, finché uno di loro mi dice: “Vedi, se Londra non manterrà il passaporto per i servizi finanziari, tutto questo potrebbe sparire; sarà un museo o torneranno i prati”.

È una profezia azzardata, ma con un fondo di verità; me la racconta con un ghigno, perché ogni giorno questi ragazzi giocano col rischio e sanno che in un modo o nell’altro il successo è sempre dietro l’angolo. Non so se in fondo ne siano convinti anche ora, ma sicuramente non perderanno il loro lavoro. Per quanto la City possa implodere, le banche si trasferiranno altrove, a Parigi, a Francoforte, o addirittura a Dublino. Le ripercussioni a Londra, però, sarebbero epocali. Verrebbe meno la principale industria del paese, con effetti a cascata sugli altri settori. Ad esempio, l’edilizia nella capitale è in continua espansione; nuovi grattacieli sono costruiti ogni giorno; negli ultimi anni il quartiere di Canary Wharf è stato rivoluzionato da queste costruzioni, con complessi residenziali moderni ed eleganti, destinati a rimanere vuoti, se il futuro dovesse rivelarsi così grigio per le professioni legali e finanziarie. Ma d’altronde, si sa che la bolla immobiliare sta scoppiando. Negli ultimi dieci anni i prezzi delle case sono cresciuti dell’oltre il 20% e all’indomani del referendum di giugno le vendite di esercizi commerciali sono crollate, in virtù dell’incertezza degli investimenti nel dopo – Brexit.

Sempre a Londra incontro altre persone, un po’ meno legate ai soldi. A un barbecue parlo con Greta di Boston che sta finendo il Master al King’s College. Adora Londra e l’Europa. Ha sicuramente una percezione diversa dalla nostra, ma ci ammonisce e ci ricorda della fortuna che abbiamo nel poter confrontarci con tutti, senza annichilire le altre culture. Il suo giudizio sull’America è spietato, tanto da arrivare a dire di non voler più tornare, soprattutto nel caso dovesse vincere Trump. Forse si è lasciata andare troppo nei giudizi, ma il suo messaggio è chiaro: rendiamoci conto dell’opportunità che abbiamo nel poter confrontarci l’un l’altro, creando una forza ulteriore.

Incontro un’altra ragazza, invece, Nicole, che vede la realtà in un modo diverso. Da Cardiff si è spostata a Maastricht per studiare il Diritto dell’Unione Europea, fino alla doccia fredda dello scorso 23 giugno. Non per questo non realizzerà le sue ambizioni in futuro, ma vede quell’esito come uno smacco personale. Mi racconta che in Galles il quesito non è stato minimamente inteso. In quelle terre risiede ancora quello che è rimasto della classe operaia britannica e per lo più hanno votato per il Leave, pronti a rinunciare alle tutele europee. Mi parla dell’incapacità dei partiti di instaurare un dibattito serio. Resto ingenuamente colpito: i partiti inglesi, l’eccellenza della professionalità in politica. Lei non coglie questa mia stima per il loro sistema, ma mi racconta del crescente senso di sfiducia verso i partiti, ormai completamente incapaci di interpretare e rielaborare le istanze della società. Insomma, alla fine parliamo la stessa lingua.

Potrei, nonostante questa breve esperienza inglese, raccontare molte altre storie che si mischiano a Londra. Ci sono le ragazze turche che si sentono europee e si incupiscono appena parlano di quello che sta accadendo in Turchia. Queste storie si mischiano in una metropoli che per la sua storia non può che fare a meno del multiculturalismo e dei legami col mondo.

Sappiamo che la strada da percorrere è quella del definitivo recesso del Regno Unito dalla UE, ma non sappiamo a che prezzo. Così come non sappiamo che tipo di traghettatore sarà Boris Johnson, come nemmeno che progetto hanno in mente a Bruxelles. Esatto, un progetto è quello che manca. Un progetto che smetta di avere al centro i servizi finanziari come contenuto e non come strumento. Perché quello che oggi manca all’Europa è l’idea di un nuovo contratto sociale che razionalizzi queste storie di unioni di popoli. Perché l’alternativa sono i muri, facili da erigere e duri da abbattere.

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