#Renzi: l’uomo solo al comando non porta lontano

La legge sulle unioni civili appena intascata; la flessibilità che arriva da Bruxelles, con gli ispettori del FMI che giudicano positivamente le riforme messe in campo dal governo per la crescita; infine, il referendum costituzionale, in grado di stravolgere l’architettura dello Stato come mai finora, a ottobre. Matteo Renzi, nel suo appartamento a Palazzo Chigi, con la cyclette portata da Firenze, valuta tutto ciò. Può proclamare che il suo governo è quello che sta compiendo le riforme tanto attese negli ultimi anni; una lettura superficiale gli sarebbe senz’altro favorevole; una lettura più moderata riconoscerebbe che il suo attivismo deve anche conciliarsi con un periodo storico particolare, nel quale correre da solo risulta facile, ma non era lo stesso Marx a dire che i fatti fanno gli uomini, non meno di quanto gli uomini facciano i fatti?

Eppure, Renzi da tempo sembra aver cambiato approccio: non procede più in prima fila a spada tratta, ma manda in avanscoperta una serie di fedelissimi, con un turnover notevole peraltro, per poi sfilare col petto gonfio a riscuotere consensi, azzerando il contraddittorio; se questo gli permette di godere solo dei meriti, scaricando le malefatte sugli altri, allo stesso modo è ravvisabile anche un nuovo (e forse conseguente e inevitabile?) ruolo da mitigatore, quando deve intervenire a smussare certe uscite infelici (e le recenti dichiarazioni della Boschi in questo senso ne sono una prova schiacciante). È senz’altro un progresso nella figura di Renzi: si è elevato a un piano al quale gli altri non possono pensare di ergersi nemmeno per un istante; è distaccato dalle vicende quotidiane, ma allo stesso tempo è sempre al centro dei discorsi dei suoi uomini e dei suoi avversari. Tuttavia, questa situazione si traduce in uno scenario quantomeno inquietante: una classe politica dirigente dalla mediocrità diffusa e un’assenza di leadership.

Ad una lettura superficiale, nessuno negherebbe che Renzi sia un leader. Se etimologicamente la parola leader dovrebbe ricondurre al concetto di guida, qui sarebbe al più ravvisabile nel gesto di un burattinaio. Nessuno sminuisce l’impresa titanica di aver scalato una gerarchia del PD bersaniano ingessata e di averla rivoltata, spazzando via il vecchio establishment e facendo avanzare una classe nuova (chi più, chi meno). Tuttavia, in questo percorso sembra essersi corsa una cronoscalata, più che un gioco di squadra, il quale avrebbe inevitabilmente sviluppato tutte quelle sinergie in grado di produrre una diffusa qualità politica e, quindi, maggior consenso.

È contato sicuramente di più l’obiettivo finale, governare, piuttosto che la formazione di un gruppo solido e articolato in grado di lavorare per cambiare effettivamente verso. A riprova di ciò si vedono tanti piccoli indizi disseminati nella cronaca politica degli ultimi mesi: i fedelissimi cambiano ciclicamente (che fine ha fatto Graziano Delrio?) e quando bisogna scegliere dei nomi per ricoprire le cariche più rilevanti si guarda difficilmente in casa. Infatti, per il Ministero dello Sviluppo Economico si è pensato a Carlo Calenda, sicuramente un personaggio esterno alla nomenklatura piddina, per quanto renziano. Altre dimostrazioni, invece, sono date dalle vicende che si svolgono a livello territoriale. Se a Milano, dove Renzi si è mostrato al mondo in prima fila all’Expo, era fondamentale proseguire quel progetto virtuoso che si sta vivendo in questi anni, motivo per cui non ci sono state esitazioni nello scegliere il nome di Beppe Sala, altrove, dove gli scenari sono più apocalittici o comunque ostili al giglio magico, si è deciso di affidarsi a logiche diverse, perfino appollaiandosi sul consenso dei clan locali.

Infatti, a Torino nessuno ha pensato di mettere in discussione il feudo di Fassino; a Roma, dopo le umiliazioni impartite al compagno (disconosciuto) Marino, sebbene comunque a compromettersi fosse stato il presidente Orfini, si è scelta la carta Giachetti, senz’altro fedele, ma che svolge il ruolo del combattente solitario nel teatrino della capitale. Volendo tornare più indietro nel tempo, emblematiche erano state le regionali: Vincenzo De Luca era una carta sicura, nonostante tutti i difetti di immagine che ha comportato; mentre la vera candidata renziana in Veneto, Alessandra Moretti, è andata incontro a una disfatta. Tutto ciò dimostra che lasciando correre e assecondando lo status quo del territorio il risultato è perseguibile, perché in un certo senso è figlio di un prodotto della politica locale, che ha lavorato per quello, seppur, talvolta, con mezzi discutibili, mentre calare il proprio nome dall’alto non ha portato a buoni risultati.

Il problema, però, qui è dato dal fatto che la classe politica renziana si è formata, con tutte le limitazioni del caso, solo attorno al leader ai piani alti della gerarchia, lasciando il vuoto attorno a sé e soprattutto a livello territoriale, dove troppo spesso giungono testimonianze di una vita politica poco consona alla democrazia matura alla quale tutti aspiriamo. Lo stereotipo dei Renzintegralisti che è venuto formandosi, e che troppo spesso, purtroppo, trova conferme, è quello dei trentenni sbruffoncelli, ben vestiti, dalla lingua veloce, in grado di sviolinare liste infinite di riforme (più o meno fatte), limitandosi a citare titoli sensazionali, senza scendere mai nel dettaglio perché “non è tra le priorità del Paese”.

Invece, è col merito che bisogna fare i conti, anche se talvolta noioso, perché la realtà è eccessivamente complessa per poter essere risolta da una persona sola o semplificando sempre il discorso. Affrontare il merito, notare le complessità, vuol dire coinvolgere le menti migliori e le forze più propulsive in questo progetto di cambiamento. Da questo coinvolgimento, che passa necessariamente da un dibattito interno a un partito maturo e non fatto di scaramucce tra gruppetti che nemmeno in una classe del liceo linguistico, scaturisce una forza di sistema in grado di resistere anche agli individualismi. Si trasformerebbe l’episodio favorevole in un metodo. Il vero leader a quel punto sarebbe colui che è riuscito a costruire una squadra e un sistema in grado produrre quel cambiamento tanto proclamato e non, invece, colui che scommette sulla sua capacità riformista facendo all in a un referendum costituzionale. In quest’ultimo caso avremmo solo il pallido ricordo di un leader di provincia che pensava di cambiare il mondo da solo.

Se Renzi si considera l’individuo cosmico-storico che crede di essere, se vuole davvero lasciare un segno indelebile nel Paese, che colga questa sfida, dimostrandosi un vero leader. In questo modo, garantirebbe anche un prosieguo al proprio periodo, perché nel frattempo si sarebbe costruita una struttura in grado di funzionare anche in futuro, e parallelamente la minoranza del PD dovrebbe organizzarsi e forse sarebbe in grado di offrire un’alternativa adeguata. È probabilmente questa la vera crisi di leadership di cui tanto si parla e dalla quale derivano i gravi problemi di rappresentatività di cui soffriamo.

Sarebbe disonesto non riconoscere che difficoltà simili si riscontrano trasversalmente in tutta Europa, come la pericolosa crescita di consensi verso le formazioni di estrema destra dimostra. Allora che Renzi colga questa sfida: crei il vero partito del cambiamento, forte, solido, strutturato e fondato sui contenuti. A quel punto guarderebbe e sarebbe guardato in Europa con occhi diversi, perché fornirebbe un esempio di cambiamento, permettendo di fare effettivamente rete trasversalmente a livello europeo; finirebbe la retorica dell’Europa “bella perché tutti i popoli sono uniti e dobbiamo stare insieme” e si affronterebbero le vere crisi che la UE sta vivendo in modo costruttivo.

È forse chiedere troppo? O questa soluzione va cercata altrove?

16 commenti su “#Renzi: l’uomo solo al comando non porta lontano”

  1. Una grossa responsabilità c’è l’ha anche la sinistra Dem che, invece di resistere, non cedere ai ricatti e mobilitare i suoi militanti, se n’è andata o adeguata…diversamente è andata in UK e USA…

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