“Le parole definiscono il mondo”, diceva Giorgio Gaber. E allora partiamo da due parole: comunità internazionale. Un trionfo dell’ipocrisia. Purtroppo il mondo non è mai stato una comunità e non lo è tantomeno oggi, il tempo in cui le barriere degli stati vengono progressivamente erose nel nome della globalizzazione. C’è chi magnifica questo fenomeno, con la retorica della fine delle divisioni nazionalistiche e di una inarrestabile espansione delle libertà umane. Magari fosse così. L’abbattimento di ogni confine è stato compiuto in funzione del capitale e dei grandi affari, seguendo il dettato del neoliberismo. La grande finanza ha stretto le maglie dell’economia mondiale in una fitta rete di interdipendenze. Alcuni diranno che tutto ciò è positivo, perché le nazioni sono incentivate a cooperare piuttosto che ad essere in conflitto tra loro. Questa falsità è smentita dalla realtà, che ci costringe ad assistere a una guerra mondiale a tensione controllata.
Però una cosa è vera: esiste una forma di collaborazione, ma non tra gli stati. Gli unici ad associarsi in una potentissima lega sono le élite economiche, impegnate oggi più che mai a scatenare l’oppressione all’interno delle nostre società. In Italia la classe media affonda, il lavoro è svuotato di valore, masse di immigrati anonimi vengono sfruttate dalle mafie e disprezzate dai più poveri, costretti ad un’estenuante competizione al ribasso. Per non parlare poi degli emarginati di sempre (disoccupati cronici, disabili, tossicodipendenti e così via). La “santa battuta di caccia” di cui parlava Marx è oggi un massacro indiscriminato verso le vittime della delocalizzazione, del precariato e del consumismo. I demagoghi dell’estrema destra non fanno altro che incitare la guerra tra sfruttati, facendo il gioco dei padroni.
In questa situazione, il ruolo della sinistra deve essere esattamente opposto. Riscopriamo l’internazionalismo che ci ha sempre distinti, perché quando lo abbiamo dimenticato ci siamo resi complici delle peggiori vergogne. Pensiamo ad esempio al 1914, quando (eccetto che in Italia) i socialisti si fecero trascinare nella gioia maledetta della “comunità d’agosto” (altri fiumi d’ipocrisia) che si preparava ad insanguinare l’Europa. La sinistra deve unire e difendere gli invisibili dell’avanzatissima società occidentale e il proletariato del terzo mondo. Ma tutto ciò è impossibile senza un chiaro progetto alternativo a questo inferno terrestre. La globalizzazione in sé non è un male, a patto che siano i popoli a realizzarla. Del resto, la pace ha bisogno di un villaggio globale egualitario e libero. Per questo la nuova sfida è quella di espandere al massimo la giustizia sociale nel pianeta.
È palese che la socialdemocrazia non fa abbastanza per tutelare i diritti, accettando di fatto le diseguaglianze strutturali del capitalismo. Mi piace pensare che l’alternativa consista in un socialismo civile che esalti i diritti umani, la solidarietà, la democrazia e l’ambientalismo. Il processo di edificazione della sinistra post-sovietica è appena cominciato e i risultati elettorali recenti danno risultati incoraggianti. Ci sono la Syriza di Tsipras, Podemos, la Linke tedesca e il Front de Gauche in Francia, ma anche la parabola vittoriosa del Partito Democratico del Popolo in Turchia, il Sudamerica del Forum di San Paolo e l’Africa, il cui potenziale rivoluzionario è meravigliosamente grande. In Italia siamo in ritardo, ma anche qui la macchina si è messa in moto, tra Civati, Vendola, Landini e Ferrero.
Parallelamente è tuttavia necessaria una casa mondiale dei popoli, un’Internazionale New Global. In questo senso il Forum Sociale Mondiale sta contribuendo enormemente all’incontro e allo scambio di idee tra società civile e movimenti politici, ma per il futuro dobbiamo pensare a qualcosa di più. Perché il problema, oggi più che mai, non è la teoria ma la prassi. Se ciascuno resta chiuso nella propria individualità abbiamo perso tutti per sempre. Ma se l’unità abbatte i confini, combattendo lo sfruttamento sullo stesso suo livello ormai sovranazionale, possiamo tornare a credere in qualcosa di nuovo. Ne abbiamo disperatamente bisogno, vista la crisi del disimpegno che viviamo oggi dopo esserci svegliati bruscamente dalle lotte ideologiche della Prima Repubblica. Quindi crediamoci, con onestà d’animo e fierezza: è questo il fascino degli oppressi che fa tremare il potere. Un altro mondo è possibile.