Da donna del 2015 non posso che guardare con rispetto alle donne e agli uomini che nel 1945 resero possibile il suffragio universale in Italia. Fu, d’altra parte, una battaglia dura ma soprattutto sensata: un anno dopo, l’affluenza per il referendum istituzionale sulla forma (repubblica o monarchia) dello Stato italiano fu quasi del 90%. Oggi né in Italia né in nessun altro Paese si raggiungono cifre anche solo lontanamente simili.
Sono passati 70 anni di politica, società ed economia e quella battaglia, ieri sensata, nel 2015 avrebbe un retrogusto amaro. Lo aveva, per la verità, anche all’epoca, laddove le debolezze e le spaccature del movimento femminista e delle suffragette in particolare, riflettevano la vivacità della lotta di classe di allora e, per quel che ci riguarda, anche delle tante voci della Sinistra che avevano contribuito a dare corpo al femminismo. Uno dei cavalli di battaglia di una parte del movimento era che dare il voto alle donne avrebbe significato rendere la politica “migliore”, se non altro per quel che riguardava le politiche sociali e famigliari. Nel 2015 la musica non è cambiata: la battaglia per le quote rosa vive anche dell’ideologia che la spartizione equa del potere tra uomini e donne renda il potere “migliore”, ma la realtà si è dimostrata assai diversa.
Non posso negare che esista una disparità nelle aziende e nei parlamenti tra uomini e donne che non può essere spiegata solo ed esclusivamente con una differenza biologica tra i due sessi. La vedo in prima persona nel campo della scienza, sia essa pubblica o privata, dove le donne (e le donne che comandano specialmente) sono poche. A scuola e nelle università non c’è più una predominanza maschile come in passato, ma a un certo punto della carriera il meccanismo s’inceppa: gli uomini vanno avanti e le donne no. Ebbene, sono 70 anni che le donne votano in Italia, eppure molto poco hanno fatto per rendere la vita delle donne “migliore”. No, non è colpa degli uomini. Né delle suffragette.
La colpa è nostra che viviamo nella fantasia che il voto (e il voto dato a una donna in particolare!) magicamente cambi il mondo in cui viviamo. Per esempio, anche i poveri hanno il diritto al voto, eppure in Italia guadagnano un decimo dei ricchi. I giovani hanno il diritto al voto, eppure nel 2014 la disoccupazione giovanile nell’Unione Europea era sopra il 20%, con punte di oltre il 50% in Spagna e Grecia (il 7% della Germania è un po’ taroccato e prossimamente spiegherò perché). Il fatto è che votare Tizio o Caio non ha mai cambiato radicalmente le cose: chiedete alla madre di Michael Brown se la sua vita è migliorata da quando alla Casa Bianca siede Barack Obama.
Ieri un’amica su facebook chiedeva “dove siamo arrivate oltre il voto?” ed è una domanda più che sensata oggi, non solo perché sono 70 anni dall’introduzione del suffragio universale in Italia, ma anche perché l’elezione di Tsipras in Grecia ha giustamente acceso gli animi di tutti e io temo che, col tempo, la realpolitik trasformerà così tanta passione in altrettanta, se non maggiore, delusione.
Perché il voto, purtroppo, non è il punto di arrivo. Se ci pensate bene questo stesso diritto è arrivato, paradossalmente, non dalle donne sedute in Parlamento o da quelle in coda alle urne, ma dalle donne che scioperavano, scrivevano, si associavano, manifestavano e talvolta finivano in galera. Ed è proprio da lì che dobbiamo ricominciare, da tutto quello che è “oltre” il voto. Una donna a scuola, sul posto di lavoro, per strada o a casa, infatti, può fare molto di più di tutte le Boschi e le Boldrini di questa Terra. Lo hanno dimostrato le suffragette ben 70 anni fa.