La fabbrica del futuro (e perché lavorare non è un diritto)

In Germania si sta sviluppando un progetto molto importante che va sotto il nome di “Industrie 4.0” e vede la partecipazione congiunta del settore pubblico e privato. L’obiettivo è quello di automatizzare sempre più le fabbriche, il punto forte dell’economia tedesca, in modo da continuare ad essere competitivi con i Paesi emergenti (specialmente la Cina) che basano gran parte del proprio successo sul basso costo del lavoro. L’intento è quello di arrivare a produrre un oggetto (che sia un elettrodomestico o uno shampoo, come già sta sperimentando BASF) modellato sulle esigenze del consumatore, senza che nessun essere umano debba toccare una macchina che non sia un computer. Ambizioso? Certamente. E la paura dei tedeschi è che i colossi americani Google e Amazon monopolizzino il mercato dei software coi quali il consumatore si interfaccerà alla produzione.

E i lavoratori, che fine faranno?

Pensando a un futuro in cui Industrie 4.0 sia la normalità, mi viene da fare una riflessione impopolare: il lavoro non è un diritto.

La casa, la salute, l’affettività, la libertà di espressione, questi sì che sono diritti! Non è un diritto fare il turno di notte in fabbrica, non è un diritto ammalarsi di cancro o di depressione, non è un diritto passare 14 ore in ufficio o alzarsi alle 4 del mattino per fare le pulizie, non è un diritto lavorare in un negozio anche la domenica e nei giorni di festa. Tutto questo è la moneta con cui oggi compriamo i diritti veri e a volte non ci basta nemmeno: là fuori ci sono case vuote, tonnellate di cibo buttato via ogni giorno, discriminazioni di ogni tipo, maltrattamenti e abusi di potere. Essere felici o almeno sereni, questo sì che sarebbe un diritto di tutti.

Immaginiamo un futuro in cui possiamo avere quello che abbiamo senza che un ragazzino in Africa entri in una miniera, senza che un uomo o una donna usi una macchina pericolosa o delle sostanze potenzialmente tossiche e senza che qualcuno faccia migliaia di chilometri col suo camion per portare nel negozio vicino casa nostra l’oggetto finito. In un futuro non molto lontano avremo le conoscenze scientifiche e tecnologiche necessarie per farlo. Già oggi potremmo avere gli stessi beni e servizi lavorando molto meno di quanto facciamo, ma non possiamo, perché, ad esempio, paghiamo affitti e mutui stratosferici per un bene che per migliaia di anni non è mai mancato a nessun essere umano.

A partire da domani ciascuno di noi potrebbe fare le attività che più gli piacciono e che possono essere utili agli altri, senza avere bisogno di una retribuzione. Nel frattempo potremmo continuare ad utilizzare elettricità e acqua, farci fare un elettrocardiogramma o una biopsia, viaggiare su un treno. Ma non lo facciamo. Continuiamo a vivere e lavorare come 200 anni fa con in mano una tecnologia da fantascienza. Il mio lavoro, ad esempio, a inizio ‘900 era molto diverso. Servivano diversi giorni per identificare un composto chimico e si faceva tutto manualmente, con una buona dose di pazienza. Oggi bastano 10-20 minuti, eppure io e gli altri chimici lavoriamo lo stesso numero di ore dei nostri colleghi morti e sepolti da almeno 50 anni. Perché in tutti i lavori, non solo in quello del chimico, le macchine sono state utilizzate per aumentare la produzione e solo per sbaglio hanno talvolta diminuito il carico di lavoro e i potenziali pericoli.

La colpa non è solo del capitalismo. La colpa è anche della sinistra. Ci siamo convinti che pulire cisterne, cucire jeans, scrivere gratis articoli di giornale sul royal wedding e studiare medicina per 9-10 anni per farsi trattare come feccia dal primario, fosse un diritto. E abbiamo pure lottato per tenercelo ben stretto. E molto di questo errore è legato al nostro rapporto con la tecnologia, che per paura e diffidenza abbiamo lasciato in mano a pochissimi, che l’hanno usata per massimizzare i propri profitti. Chissà se pensavano già dall’inizio che ci saremmo bevuti la storia che bisognava stare 10 ore in fabbrica per avere il diritto di curarsi una malattia presa stando in fabbrica, come successe a una persona a me molto cara alcuni anni fa, per colpa del famoso amianto.

Se c’è qualcosa da rottamare a sinistra è l’idea che i lavoratori debbano essere educati a odiare la tecnologia. Quello di Industrie 4.0 è il futuro che io voglio e che so anche mio padre, operaio metalmeccanico, vorrebbe. La domanda è se sapremo usarlo a nostro vantaggio o regaleremo di nuovo tutto ai padroni, reclamando per noi il diritto di farci sfruttare.