#Libri. Genet: quando la diversità diventa letteratura

Sebbene non sia ancora molto conosciuto in Italia, Jean Genet è sicuramente uno degli autori francesi più discussi e geniali del Novecento. Scrive di lui il critico Claude Bonnefoy: “Braccato o spinto dai suoi desideri, egli va. Nomade fuori legge, egli è a casa sua in tutti i tuguri. Egli appartiene alla famiglia dell’ombra”. Uomo privo di radici e legami famigliari, scrittore maledetto, intellettuale di sinistra, Genet trova nella strada le sue ragioni di vita e nell’esaltazione della diversità geografica, sociale e di genere la missione della sua opera. Orfano, vagabondo e omosessuale, egli attira su di sé il disprezzo del perbenismo borghese dell’epoca che tende a classificare come “anormale” ogni individuo che non si adegua al codice morale delle classi dominanti.

Per capire a fondo la poetica e la genialità di Genet non possiamo prescindere dalla lettura del suo Diario del Ladro (1949), opera parzialmente autobiografica che ci permette di ricostruire l’infanzia dello scrittore. Quando Jean nacque, fu subito abbandonato dalla madre e raccolto dalla Pubblica Assistenza che lo affidò a una famiglia di contadini del Morvan. Il bambino crebbe così a stretto contatto con la natura, giocando tra le verdi vallate della Borgogna e quasi “fondendosi”, come ci ricorda Sartre, con l’erba e con la campagna. Questo spiega la ragione per la quale, nelle sue opere, ricorrono ossessivamente l’immaginario del mondo vegetale e il linguaggio dei fiori. E non poteva essere diversamente per un uomo il cui cognome indica il nome di una pianta (in francese “genet” significa ginestra). Forse Genet aveva letto la penultima lirica di Giacomo Leopardi, intitolata La Ginestra o Il fiore del deserto (1836), in cui il poeta del Romanticismo italiano esaltava la resistenza di questo fiore, l’unico a sopravvivere sulle pendici riarse e desolate del Vesuvio, e ne faceva il simbolo dell’uomo che, presa coscienza della sua sofferenza e della sua solitudine, riesce ad affrontare i tormenti e le disgrazie della vita. E Genet, simile alla ginestra leopardiana, fece del suo isolamento il punto di forza per fronteggiare e superare il dolore. Tuttavia, la ginestra assumeva un’altra valenza agli occhi di Jean che si identificava, per via del cognome, con quel fiore, quella della pianta che si nutre del sangue e che devasta, la cui bellezza nasconde una voracità famelica.

Secondo Sartre, che rilegge tutta la vita di Genet come il susseguirsi di quattro metamorfosi, vale a dire fanciullo buono e trasparente prima, poi uomo cattivo, quindi esteta e infine scrittore, l’episodio nel quale i compagni di classe rimarcarono al maestro che Jean non era figlio di contadini ma solo un orfano, segnò di fatto il passaggio dal Genet bambino innocente al Genet rancoroso, solo e antisociale. Ferito e umiliato, Jean iniziò a dedicarsi al furto col tentativo, rimarca Sartre, di “possedere” e integrarsi così in una società che non l’aveva mai accettato o considerato come uno dei suoi. All’età di tredici anni venne scoperto e agli occhi di quella stessa società il peccato originale d’essere un orfano si coniugò con l’ignominia della criminalità. Egli fu così recluso, prima a La Petite Roquette e poi a Mettray: iniziava per Genet il periodo delle case di correzione. In carcere, però, Jean ritrovò quella pace e quell’armonia che aveva provato sui verdi prati di Morvan quando viveva a stretto contatto con la natura. La prigione venne subito vista da Genet come un grembo materno che lo proteggeva dalle brutture della società e dalle abiezioni di un mondo che non lo voleva.

I temi trattati nel Diario sono scioccanti e richiamano dunque alla memoria le esperienze personali vissute da Genet adolescente: delinquenza, prostituzione, vagabondaggio, reclusione. Ma proprio questi traumi permisero all’autore di sviluppare una sensibilità particolare nella descrizione dei problemi tipici dei carcerati, dei poveri e degli ultimi. Ciò che Genet descrive, con una prosa scioccante da riferimenti sessuali talora espliciti, è dunque la ribellione dell’uomo esiliato ed emarginato nei confronti di Dio e delle istituzioni.