#Libri, Robert Antelme. La Specie Umana

antelmeIl libro di Robert Antelme, L’espèce humaine, è stato pubblicato per la prima volta in Francia nel 1947 dalla casa editrice Gallimard e oggi lo possiamo leggere in italiano nell’edizione Einaudi. L’opera, che in Italia non ha avuto un successo paragonabile a Se questo è un uomo di Primo Levi, è un vero e proprio capolavoro e racconta la traumatica esperienza, vissuta dall’autore, nei campi di concentramento di Buchenwald, Gandersheim e Dachau.

Il testo di Antelme si inserisce, così, nel filone della letteratura concentrazionaria ma con delle connotazioni che, a mio giudizio, lo rendono unico ed eccezionale. Innanzitutto, a differenza di Primo Levi, Antelme non era di origini ebraiche. Nato in Corsica, egli si trasferì presto a Parigi e, a partire dagli anni Quaranta, si legò all’ambiente della resistenza francese che era formato, tra gli altri, da François Mitterand, allora responsabile del Movimento Nazionale per i prigionieri di guerra, e dalla giovane intellettuale Marguerite Duras, che egli aveva sposato nel 1939. A causa della sua attività anticlandestina, anti-collaborazionista e anti-nazista, Antelme fu arrestato nel giugno del 1944 insieme alla sorella e poi condotto nei campi di concentramento di Buchenwald, Gandersheim e Dachau, dal quale fu liberato il 29 aprile del 1945 grazie all’intervento degli americani e dello stesso Mitterand che lo riconobbe in mezzo ai malati messi in quarantena. Come emerge dalla sua opera, al momento della liberazione, egli pesava 35 chili, e dovette impiegare cinque settimane per riprendersi, lottando tra la vita e la morte.

Il lager lo aveva ridotto a uno “zero” vivente, il nazismo gli aveva tolto lo “status” e la dignità di uomo per ridurlo a una bestia. Eppure, anche in quella condizione, al limite delle forze, ad Antelme prigioniero non venne mai meno la volontà di vivere, poiché ciò che accomuna la “specie umana”, al di là di ogni orrore, è l’istinto della sopravvivenza. È questo, a mio giudizio, l’insegnamento più grande che si può trarre dalla lettura di questo testo, vale a dire l’impossibilità da parte delle SS e della degenerata ideologia nazi-fascista di annientare e distruggere l’uomo.

Sembra una contraddizione ma non lo è: le SS possono torturare i prigionieri, anche ucciderli, ma non cancellare o distruggere la loro ragione, il loro spirito, la loro appartenenza alla specie umana. Proprio dalle sofferenze e dalle atrocità subite nei campi di concentramento, molti prigionieri hanno tratto la forza per riaffermare la loro volontà di vivere, aggrappandosi con le unghie e con i denti all’istinto di sopravvivenza, all’ “unità dell’uomo” come la definisce Antelme. E, per lo scrittore francese, questa rinascita della specie umana, dopo la degenerazione politica, sociale e culturale che il nazi-fascismo ha rappresentato, può passare solo attraverso il comunismo. Anche se ben presto egli rimarrà deluso dalla politica del Partito Comunista Francese, accusato di non aver prodotto il nuovo tipo di intellettuale a cui lo scrittore mirava, Antelme non smetterà mai di credere che la nascita di una nuova specie umana, quella tanto agognata durante la terribile reclusione nei campi di concentramento, si realizzerà solo a seguito di una rivoluzione dove coloro che hanno sempre subito e patito, vale a dire il “prigioniero”, il “deportato” e il “proletario” spezzeranno finalmente le catene della schiavitù per dare origine a un mondo dove trionferanno gli ideali dell’uguaglianza e dalla solidarietà. In tal senso, non c’è dubbio che Antelme consideri il fascismo e il nazismo come i prodotti reazionari della classe borghese al potere e del capitalismo.

Da un punto di vista più propriamente narrativo, l’opera di Antelme si inserisce nel filone della memorialistica carceraria, dove la scrittura assurge a ruolo catartico nel senso che il superamento e la rielaborazione della atrocità e delle torture subite nel campo di concentramento passano solo ed esclusivamente attraverso l’esigenza di scrivere, di lasciare una testimonianza. Nel caso di Antelme, la scrittura si è rivelata efficace e ha permesso all’autore non solo di testimoniare “l’inimmaginabile” ma anche di superare i traumi legati a tale esperienza, mentre, nel caso di Primo Levi, come sappiamo, la scrittura non si è rivelata sufficiente e la mancata rielaborazione delle sofferenze patite durante la prigionia ha contribuito al gesto estremo del suicidio.

Vale la pena, dunque, di leggere o riscoprire il testo di Antelme ed eventualmente di metterlo in relazione con gli altri capolavori della letteratura concentrazionaria, al fine anche di comprendere i meccanismi maniacali su cui si basa un’ideologia degenerata come il nazi-fascismo, ideologia che non può essere definita “folle” ma, come ci spiega bene Antelme, “razionale”. Se, infatti, definissimo il nazismo come un regime di “folli”, “malati” o “irrazionali”, tenderemmo implicitamente a “giustificarlo”, dal momento che le persone “ folli” possono commettere delle atrocità senza rendersene conto; al contrario il nazismo fu un regime “razionale” basato su un’organizzazione attenta, studiata, precisa e meticolosa ed è proprio in questa “razionalità lucida del male” che risiede tutto il suo orrore e tutta la sua perversione.