#StatoMafia, se a #DiMatteo fanno fare la stessa fine di #Falcone

La storia è maestra, ma non ha scolari, diceva Antonio Gramsci. E ventidue anni dopo la strage di Capaci il copione è lo stesso, anche se cambiano gli interpreti, almeno sul fronte delle vittime. Perché i responsabili, bene o male, sono sempre gli stessi.

Esattamente come in quel 18 gennaio 1988, quando Antonino Meli venne preferito a Giovanni Falcone nel succedere al grande Antonino Caponnetto alla guida dell’ufficio istruzione di Palermo, il Consiglio Superiore della Magistratura con la circolare del 5 marzo scorso si rende responsabile di un gravissimo episodio che nei fatti isola il pm antimafia Nino Di Matteo.

Secondo questa circolare, potranno occuparsi di indagini di mafia (e quindi anche di quella incorso sulla trattativa Stato-Mafia) solo i pm membri della Direzione Distrettuale Antimafia: poiché moltissime indagini sono seguite anche da magistrati non facenti parte della Dda, il risultato nei fatti è il blocco di molte indagini. Chi se ne avvantaggi è sotto gli occhi di tutti, di certo non la ricerca della verità e di giustizia.

Ma quello che porta a vedere inquietanti analogie con l’arrivo di Meli al posto di Caponnetto nel 1988 è proprio l’azzeramento del pool investigativo antimafia sulla trattativa, formalmente guidato da Vittorio Teresi, l’unico che sopravviverà alla circolare perché appartenente alla Dda. Di Matteo non potrà più occuparsi di indagini di mafia, così come all’epoca fu impedito a Falcone, che si buttò sulla famosa operazione anti-droga tra New York e Palermo con l’allora procuratore Rudolph Giuliani e che alla fine, a causa del clima ostile nel c.d. “palazzo dei veleni” (così venne ribattezzato il palazzo di giustizia di Palermo), accettò l’invito dell’allora guardasigilli di dirigere il dipartimento affari penali del Ministero della giustizia.

E’ pur vero che quell’isolamento nei confronti di Falcone gli permise di fare molto più male a Cosa Nostra di quanto i suoi avversari fuori e dentro la magistratura potessero mai pensare: al riguardo, basti ricordare l’intuizione di far decidere sulle sorti del Maxi-Processo la Cassazione a sezioni riunite, anziché affidare il procedimento alla prima sezione, quella presieduta da Corrado Carnevale, passato alla storia come il giudice ammazza-sentenze.

Ma è normale in un paese che ha ben 4 organizzazioni mafiose autoctone (e le esporta in tutto il mondo) che si faccia di tutto per impedire importanti indagini che permettano di far luce sulla nostra storia recente? E’ ammissibile che l’istituzione pensata per tutelare l’indipendenza e il lavoro della magistratura abbia operato negli anni per mettere i bastoni tra le ruote, come in questo caso, ai suoi membri in prima fila contro l’illegalità, la corruzione e il malaffare?

No, non è normale. Del resto, noi non siamo un paese normale. Troppe inquietanti analogie ci sono con il passato e ancora una volta la società civile pensa ad altro, mentre nelle segrete stanze c’è chi lavora per rubarci la verità sul passato e, quindi, ci nega un futuro: perché non può esistere un Paese dove le luci della sua storia sono utilizzate solo per mettere maggiormente in risalto le ombre. Un paese non vive e non vince senza unità morale e senza memoria. La prima ce l’hanno tolta da un pezzo, la seconda tentano di cancellarla a colpi di sentenze di assoluzione per insufficienza probatoria.

E giunto anche il momento di dire basta. La ricerca della verità, questa volta, dipende anche da noi, da come sapremo essere cittadini. Perché, come diceva Falcone, la mafia è un fenomeno umano e in quanto tale si può battere. Ma si può battere solo se ciascuno di noi fa il suo dovere.