Il #carcere: capolinea dell’errore umano o nuovo punto di partenza?

Uno dei problemi che oggi la politica è chiamata ad affrontare è la questione carceri, non soltanto nella prospettiva del contrasto al “sovraffollamento”, un superlativo del superlativo che ci parla inevitabilmente di una situazione non più tollerabile. Quello che ci si deve chiedere è quali possano essere le misure da adottare affinché la reclusione sia una vera risposta al reato (e non necessariamente l’unica, prevedendo per quelli minori un rafforzamento delle misure alternative), mirando ad una piena presa di coscienza da parte del condannato, una vera crescita e un progressivo ed effettivo reinserimento nella società.

Nel 2013 i dati del D.A.P.ci parlavano di oltre 60.000 detenuti in strutture che possono ospitarne dignitosamente soltanto la metà. Ciò che preoccupa soprattutto è che le misure ad oggi adottate per ridurre questo numero (si vedano a tal proposito i procedimenti di amnistia e indulto del 2006) si sono rivelate fallimentari, portando ad un peggioramento delle condizioni, già precedentemente non tra le più felici.

Voltaire, nel 18° secolo diceva: “Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma piuttosto le vostre carceri, perché è dalle condizioni di queste che si misura il grado di civiltà di una nazione”.

Il legislatore ha dato peso a queste istanze solo dopo l’entrata in vigore delle Costituzioni del secondo dopoguerra, dotate di quella rigidità necessaria a consentire l’effettivo esercizio dei diritti umani.

Nel regolamento del 1891 era scritto: “i detenuti possono parlare a bassa voce, soltanto durante l’ora d’aria”. Altro che  dignità, venivano visti come oggetti di custodia, obbligati al silenzio, salvo in questa ora. E la dottrina nel digesto rincarava la dose: “sta bene il divieto, perché i detenuti possono comunicarsi pensieri. E la notte, in particolare, deve richiamare lo stato di vita reale”.

Il neonato parlamento del Regno non si occupava neppure della questione, interamente disciplinata da regolamenti e circolari. La prima legge arrivò nel 1975, il cosiddetto codice dell’ordinamento penitenziario : per la prima volta apparve una disciplina uniforme che teneva conto delle esigenze di rieducazione del condannato sulla scia del nuovo orientamento garantista.

Eppure, al di là dei buoni propositi, la realtà è quella che i telegiornali ci fanno vedere, con celle che sembrano esplodere da un momento all’altro e il verificarsi in tante carceri italiane di fatti gravissimi, quali episodi di autolesionismo, suicidio e violenza, anche sessuale. Il legislatore non è solo chiamato a costruire “nuove camerate”, altrimenti davvero non ci discosteremmo di molto dalla condizione di oggetto di custodi dei detenuti, presente nel XIX secolo.

Seguire il detenuto significa investire in questo campo, incrementando le esperienze di affettività in carcere, attraverso un percorso che forse sembra utopico di fronte alle casse troppo magre dello Stato Italiano. Credo però che il problema di fondo (oltre all’aspetto monetario) sia nell’ordinamento penitenziario, dove è necessario prevedere nuovi professionisti pronti a rimboccarsi le maniche affinché gli uomini (perché tali sono e rimangono i detenuti) che hanno un debito con la giustizia possano vedere l’occasione del carcere come rinnovamento. Posto che questo non può certamente avvenire stando in cinque in una cella che ospiterebbe degnamente due persone al massimo.

Dall’altro lato si chiede alla società di collaborare con le istituzioni, riqualificando e non emarginando chi ritorna a respirare e non solo “per un’ora”.