State of play: l’etica del giornalista

Più che su un triangolo pericoloso, il film di Kevin McDonald State of play (2009) poggia su un poligono pericoloso e segue un percorso fatto di curve strette, corsie a doppio senso di marcia ed incroci dove ci si chiede quale sia l’esatta direzione da prendere.

In questo tragitto, realizzato dal regista del documentario premio Oscar Un giorno a Settembre (1999) e ispirato dall’omonima serie tv della BBC di Paul Abbott, si muovono più di un personaggio e più di una tematica. C’è il giornalismo della vecchia tradizione, quello contraddistinto dal lavoro in strada, dalla ricerca di notizie vere e dalle mani sporche di inchiostro, disgustato dai blog tritacarne che faticano a distinguere un fatto dal gossip. C’è il potere politico sotto osservazione per via di una relazione extraconiugale; la Pointcorp che arruola mercenari e si arricchisce con la guerra al terrore. Ed inoltre, il giornalista del Globe Cal McAffrey che segue il buon vecchio metodo del cane da guardia, visitando i luoghi del delitto, racimolando e diffondendo informazioni attendibili. La blogger Della Frye che vomita online e cerca di imparare dal suo collega più esperto; il brillante onorevole Stephen Collins che tradisce la moglie Anne (a suo tempo infedele ed amata da Cal), perde la sua amante Sonia Baker, indaga sul malaffare della Pointcorp e va ad impantanarsi in uno scandalo sessuale.

Come già accennato, le direzioni verso le quali si muove il film sono molteplici. Tuttavia, la questione morale che potrebbe accomunarle tutte quante è una soltanto: un giornalista, in questo caso magnificamente interpretato da un Russel Crowe burbero, ingrassato e trasandato, per senso del dovere fino a dove può spingersi? Per raccontare la verità, fa bene a inquinare reputazione del suo amico politico Ben Affleck (apparso artisticamente insicuro e sottotono) e a trascurare la sua affascinante amica Robin Wright Penn?

Kevin McDonald, supportato dalla scrittura di Michael Carneban, Tony Gilroy and Billy Roy, ha risposto all’interrogativo e contemporaneamente indicato un personalissimo filo di Arianna. Il suo è infatti un film molto articolato (dialoghi secchi; scontri verbali fra stampa e polizia, editore e cronisti; sequenze di inseguimenti), eticamente rigoroso e un poco nostalgico verso un giornalismo ideale. Quale, per l’esattezza? Quello serio che non deve piegarsi al sadismo del chiacchiericcio, ma rincorrere e pubblicare il fatto nonostante l’amicizia, la pericolosità, l’amore, la logica del profitto, servendosi della Rete, solamente se essa rimane un mezzo (nuovo, rapido e per tanti di difficile comprensione) per arrivare ad un nobile fine.

Se non fossero chiare le posizioni del regista sul ruolo della stampa, è sufficiente rivedere sue sequenze abbastanza esaustive: nella prima, Cal regala a Della una collana di penne (la ragazza non è rapida nel prendere appunti e sembra trovarsi a suo agio solo dinnanzi ad una tastiera e ad un computer); nella seconda, i due cronisti del Globe (il vecchio maestro e la giovane allieva), dopo aver scritto e inviato alle stampe il loro lavoro più importante, si allontanano fino a sparire nel buio.

Ripensando alla situazione del giornalismo odierno (l’Italia è la prova di come il potere possa controllare e imbrigliare i suoi investigatori), si può ancora sperare in un Mr McAffrey in carne ed ossa?