Travaglio, vergogna: giù le mani da Lucio Magri

In nota rispondo ad alcune critiche avanzate al pezzo. PF

C’è un non so che di volgare e vomitevole nell’ultimo articolo di Marco Travaglio, nel quale attacca in prima pagina la scelta di Lucio Magri di porre fine alla propria vita. Ognuno in vita sua dovrebbe occuparsi di quello che capisce e di cui è esperto, nel caso specifico di Travaglio la cronaca giudiziaria. Se si prova, come ha fatto oggi Travaglio, ad usare il diritto italiano per una critica morale su una questione controversa, trattandola come “omicidio del consenziente”, è chiaro che il risultato che ne viene fuori è pessimo. E la tanto sventolata obiettività del diretto interessato viene meno.

Avevo già scritto che Lucio Magri, così come Mario Monicelli, avrebbero il diritto di essere lasciati in pace, visto quello che erano e sono stati. Ma così non è, in Italia bisogna sempre dilaniarsi in giudizi morali, quando è pure statisticamente certificato che la morale in questo Paese non esiste.

Con l’intento nobile di non voler giudicare il gesto di Magri (cosa che invece fa), Travaglio scrive:

So soltanto che non organizzerei una festicciola fra i miei amici a casa mia, con tanto di domestica sudamericana che prepara il rinfresco per addolcire l’attesa della telefonata dalla clinica svizzera che annuncia la mia dipartita. Una scena che personalmente trovo più volgare e urtante di quella del pubblico che assiste alle esecuzioni nella camera della morte dei penitenziari. Ma qui mi fermo, perché vorrei spersonalizzare il gesto di Magri, quello che viene chiamato con orrenda ipocrisia “suicidio assistito” e invece va chiamato col suo vero nome: “Omicidio del consenziente”.

Peccato che Lucio Magri non abbia organizzato nessuna festicciola, ma abbia semplicemente detto agli amici più cari che aveva deciso di mettere fine alla propria vita e ha messo tutto a posto prima di andarsene, facendo le cose per bene. Senza contare che forse Travaglio ignora che in Italia addirittura, quando muore qualcuno, si fa il rinfresco dopo il funerale (e nei puritanissimi USA e UK le parate di amici e parenti sono all’ordine del giorno veri e propri ricevimenti).

Ma la filippica di Travaglio non si limita al “buon costume” dei probi viri, ma tira fuori anche il diritto italiano (ecco che si butta nella giudiziaria):

Dal punto giuridico c’è una barriera insormontabile: l’articolo 575 del Codice penale, che punisce con la reclusione da 21 anni all’ergastolo “chiunque cagiona la morte di un uomo”. Sono previste attenuanti, ma non eccezioni: nessuno può sopprimere la vita di un altro, punto. Se lo fa volontariamente, commette omicidio volontario. Anche se la vittima era consenziente, o l’ha pregato di farlo, o addirittura l’ha pagato per farlo. Non è che sia “trattato da criminale”: “È” un criminale. Ed è giusto che sia così. Se si comincia a prevedere qualche eccezione, si sa dove si inizia e non si sa dove si finisce. Se si autorizza un medico a sopprimere la vita di un innocente, come si fa a non autorizzare il boia a giustiziare un folle serial killer che magari è già riuscito ad ammazzare pure qualche compagno di cella?

Eppure anche dal punto di vista giuridico molti reati, tra cui il falso in bilancio, l’abuso d’ufficio non patrimoniale e via così discorrendo, non sono più reato. Dunque, se applicassimo il metodo Travaglio, non dovremmo fare come lui ci ha ben abituato negli anni a dare dei corrotti e dei corruttori a tutti, pur non essendoci la sentenza. Senza contare che Magri è morto in Svizzera, il diritto è una convenzione (a inizio ‘900 si poteva uccidere la moglie se si trovava nel letto con l’amante) e, soprattutto, anche le leggi razziali, stando a Travaglio, si dovevano difendere. Le leggi possono essere cambiate.

Ma il vice-direttore del Fatto, forse capendo che la critica non sta in piedi, si appella alla deontologia (quindi alla morale, altra cosa che privatamente non può essere discussa, a meno che non si tratti di morale pubblica, ovvero etica):

Dal punto di vista deontologico, altro muro invalicabile: il “giuramento di Ippocrate” ch e ogni medico, odontoiatra e persino veterinario deve prestare prima di iniziare la professione: “Giuro di… perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale, ogni mio atto professionale; di curare ogni paziente con eguale scrupolo e impegno…; di prestare, in scienza e coscienza, la mia opera, con diligenza, perizia e prudenza e secondo equità, osservando le norme deontologiche che regolano l’esercizio della medicina e quelle giuridiche che non risultino in contrasto con gli scopi della mia professione”. Non occorre aggiungere altro. Come si può chiedere a un medico di togliere la vita al suo paziente, cioè di ribaltare di 180 gradi il suo dovere professionale di salvarla sempre e comunque? Sarebbe molto meno grave se chi vuole suicidarsi, ma non se la sente di farlo da solo, assoldasse un killer professionista per farsi sparare a distanza quando meno se l’aspetta: almeno il killer, per mestiere, ammazza la gente; il medico, per mestiere, deve salvarla. Se ti aiuta ad ammazzarti è un boia, non un medico.

Dunque Travaglio, come un Formigoni qualsiasi, si appella al giuramento di Ippocrate, negando quindi la libertà personale di una persona, quindi andando contro anche a quello che il suo (per lui) Maestro, Indro Montanelli, diceva: sul tema Montanelli aveva un’idea diametralmente opposta a quella del suo bigotto apprendista, infatti era liberale, Travaglio semmai è puritano, da Lettera Scarlatta per intenderci. Cosa che conferma in chiusura, assegnando alla cultura e alla politica il compito di ridurre i suicidi (ovvero, proclama il diritto dello Stato di decidere della vita e della morte dei cittadini, come un totalitario qualsiasi):

Se incontriamo un tizio che sta per buttarsi nel fiume, che facciamo: lo spingiamo o lo tratteniamo cercando di farlo ragionare? Voglio sperare che l’istinto naturale di tutti noi sia quello di salvarlo. Un attimo di debolezza o disperazione può capitare a tutti, ma se in quel frangente c’è qualcuno che ti aiuta a superarlo, magari ti salvi. Del resto, il numero dei suicidi è indice dell’infelicità, non della “liber tà” di un Paese. E, quando i suicidi sono troppi, il compito della politica e della cultura è di interrogarsi sulle cause e di trovare i rimedi. Che senso ha allora esaltare il diritto al suicidio ed escogitare norme che lo facilitino? Il suicidio passato dal Servizio Sanitario Nazionale: ma siamo diventati tutti matti?

No, caro Marco, non siamo matti. Siamo semplicemente libertari. Miriamo cioè ad una forte limitazione del potere dello Stato sulla vita (e soprattutto la morte) dei cittadini, massimizzando la libertà individuale e politica. Poiché nessuno può salire in cattedra a giudicare nessun altro a questo mondo, Travaglio continui ad occuparsi di giudiziaria e lasci stare le questioni etiche. E’ evidente che non ne capisce (per citare il suo Maestro nei confronti di Berlusconi e la politica). E soprattutto, lasci in pace Lucio Magri. Che rispetto a lui fu chiaramente un gigante, oltreché una persona libera fino in fondo.

NOTA
Vorrei ricordare che la scienza medica qualifica la “depressione” come una patologia dell’umore “caratterizzata da un insieme di sintomi cognitivi, comportamentali, somatici ed affettivi che, nel loro insieme, sono in grado di diminuire in maniera da lieve a grave il tono dell’umore, compromettendo il “funzionamento” di una persona, nonché le sue abilità ad adattarsi alla vita sociale.”

Non si risolve con una chiacchierata con gli amici e un cornetto al bar. E non si esaurisce nell’essere tristi. Prima di dare aria alle corde vocali (o inchiostro alla penna), certi soloni che dicono “ma Magri non era malato”, si leggano il commento di Chiara Lalli, docente di Bioetica su Giornalettismo.

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