Un Paese senza Giustizia

Fa quasi sorridere l’ultim’ora in cui Gianfranco Fini afferma che “Politica e istituzioni hanno il compito di sostenere l’operato della magistratura”. Fa sorridere perché, anche quelli che come lui e il suo partito si sono giovati dei cappi in Parlamento e dei lanci di monetine durante Mani Pulite, nel quindicennio successivo abbiano fatto di tutto per contrastare l’operato della magistratura.

Negli ultimi quindici anni la giustizia è stata riformata più di 150 volte, e mai ovviamente per garantire i cittadini, se è vero che a Napoli un pensionato in bolletta che ruba un pacco di wafer da 1,20 euro si becca 3 anni di galera perché recidivo (ci aveva provato già un’altra volta), senza possibilità di evitarseli, mentre Calisto Tanzi, autore di una delle più grandi truffe finanziarie di tutti i tempi, continua a vivere pacifico nella sua villa, preventivamente intestata alla moglie come il resto dei suoi beni, nonostante sia stato condannato a 10 anni di galera per aggiotaggio (si attende il verdetto della Cassazione).

Perché se Politica e Istituzioni avessero veramente la volontà di assolvere al loro compito di “sostenere l’operato della magistratura”, un governo serio avrebbe eliminato nei primi mesi di legislatura tutto quel groviglio di norme e codicilli creato negli ultimi quindici anni che prende solitamente il nome di “garantismo, che oltre a far lievitare la durata dei processi, il più delle volte garantisce solo i delinquenti e non i cittadini.

Se Politica e Istituzioni stessero dalla parte di chi mette in galera corrotti, delinquenti ed evasori fiscali, allora non cercherebbero di separare le carriere, assoggettando de facto il PM al potere dell’esecutivo come in Francia (condannata dalla Corte Europea di Giustizia martedì proprio per tale dipendenza), ma anzi, si dedicherebbero ad una più attenta disamina dei candidati nelle liste dei vari partiti (liste piene di gente indegna, a sentire Beppe Pisanu, presidente della Commissione Anti-mafia), così come cercherebbero di dare l’esempio, evitando di avvalersi di improbabili e improponibili, nonché incostituzionali, scudi giudiziari.

Così però non è, perché a qualcuno conviene che il processo sia lungo, soprattutto da quando quel qualcuno ha dimezzato i tempi di prescrizione per alcuni reati, puta caso proprio quelli sulla corruzione e sui reati finanziari.

Perché se la politica volesse per davvero “il processo breve”, allora potrebbe cominciare abolendo  l’art. 525 del Codice di Procedura Penale, il quale di per sé dice al suo II comma una cosa ovvia, quasi banale:

Alla deliberazione concorrono, a pena di nullità assoluta, gli  stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento. Se alla  deliberazione devono concorrere i giudici supplenti in sostituzione dei titolari impediti, i provvedimenti già emessi conservano efficacia se non  sono espressamente revocati.

In soldoni, l’articolo palindromo dice che della colpevolezza o dell’innocenza dell’imputato decideranno i giudici che hanno seguito le varie udienze del processo (dibattimento, raccolta prove, audizione testi etc).

Ebbene, questo sarebbe giustissimo in un Paese in cui a ogni udienza si portano un paio di processi e non una trentina come nel nostro, in cui gli avvocati sono sempre presenti e non portano certificati o richieste di legittimo impedimento, dichiarando tutte le malattie o gli impedimenti di questo mondo, in cui i testi si presentano puntuali e il processo si svolge in pochi mesi, come negli USA.

In Italia invece tra la prima e l’ultima udienza passano dai due ai quattro anni. Perché? Perché bisogna sentire dai tre ai quattro testi ad udienza tra quelli del PM e quelli della difesa, devono parlare i periti, si interrogano gli ufficiali (polizia, carabinieri, finanzieri etc.), eventualmente anche le parti lese. Tutto questo va ovviamente trascritto e messo agli atti, sempre che magari il trascrittore non faccia sciopero perché attende di essere pagato per una trascrizione fatta mesi prima. Insomma, in tutta questa bella trafila, passano anni.

Ma la cosa assurda è che proprio in virtù di questo benedetto art.525 se uno dei giudici che si occupa del processo viene trasferito, rimane incinta oppure va in pensione BISOGNA RICOMINCIARE TUTTO IL PROCESSO DA CAPO!

Che senso abbia ricominciare tutto da capo, visto che è tutto registrato, trascritto, già prossimo alla conclusione, ce lo dicono i filosofi del diritto penale che hanno voluto questa norma: il processo è fatto di emozioni e sensazioni, quindi un giudice appena arrivato “perderebbe l’atmosfera”.

Come se, in sede di collegio giudicante, il giudice si possa ricordare dell’espressione del teste quando magari tre anni prima ha rilasciato la sua testimonianza.

E così va a finire che tra raffreddori, bronchiti, influenze, impedimenti legittimi, scioperi e chi ne ha, più ne metta, si arriva alla prescrizione. Soldi e tempo buttati via.

Chi ci guadagna? Non certo il cittadino. E qui parliamo di giustizia penale. Su quella civile, ci tornerò un’altra volta, perché anche lì, ci sono 9 milioni di processi che urlano giustizia, invano, nel menefreghismo del Governo e di chi dovrebbe governare.