Non c’è #politica senza compromesso

Tutto il governo – anzi ogni beneficio e gioia umani,
ogni virtù e ogni azione prudente –
sono fondati sul compromesso e lo scambio.

(E. Burke)

Il vocabolario adottato dai rappresentanti delle istituzioni politiche e amministrative si è ristretto notevolmente nel corso degli ultimi decenni. Si potrebbe sostenere che l’impoverimento e le mutazioni di significato siano conseguenze naturali della progressione linguistica. Potrebbero essere molte le prove storiche in favore di ciò. Tuttavia, in alcuni ambiti, specialmente in quello politico, non sono accettabili le distorsioni di alcuni termini, tra cui la parola “compromesso”.

Compromesso significa conciliare pretese differenti, non necessariamente opposte, attraverso reciproche concessioni; consiste nel “venirsi incontro”, nel temperamento degli estremi per posizioni più convergenti. È sempre stato, sin dai tempi in cui Solone cercava di mediare tra gli aristocratici ateniesi, ed è tutt’ora, una delle figure fondanti del sistema democratico. Non solo: accontentare la maggioranza, se non la totalità, significa porre la prima base per la convivenza pacifica. Altrimenti, se si dovesse accontentare solo una parte (fino alla situazione limite dell’unico individuo che decide per tutti), le altre diventerebbero automaticamente impotenti, escluse, emarginate. Ironico è che il compromesso sia apertamente rifiutato da chi aspira alla democrazia diretta, nata proprio sulle pendici della Pnice, ad Atene.

Compito della Politica, in primis il Parlamento e in secundis il Governo, è quello rappresentare e decidere negli interessi della popolazione nella sua interezza. Pertanto, la dialettica tra la maggioranza e l’opposizione deve avere proprio questo fine. Se il dialogo tra le parti viene meno vi sono due possibilità, ciascuna degenerazione del sistema rappresentativo: l’imposizione forzata di idee da parte della maggioranza o lo stallo decisionale. Le conseguenze, in entrambi i casi, ricadrebbero sulle spalle dei cittadini, che, ora come non mai, hanno necessità di sentire tutelati i propri interessi e, in base questi, di avere riforme idonee a rilanciare un Paese in ginocchio.

Prima l’imposizione con il Governo Renzi, ora lo stallo con il Governo Gentiloni. I politici di oggi, compresi quelli che hanno difeso con tanto ardore la Costituzione il 4 dicembre scorso, sembrano essersi dimenticati che la nostra carta costituzionale è frutto niente meno che di un compromesso, ideologico e persino lessicale. Basti pensare al primo articolo: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. I liberali non volevano questa formula come primissimo comma; i comunisti chiedevano l’inserimento della parola “lavoratori”. Il compromesso fu proprio “lavoro”. Calamandrei, a proposito dei lavori costituzionali, parlò di “compromesso tripartito” (tra DC, PSI e PCI). Togliatti preferì descriverli come “il terreno comune sul quale potevano confluire correnti ideologiche e politiche diverse, un terreno comune che fosse abbastanza solido perché si potesse costruire sopra di esso una costituzione”.

Parole che si scontrano con gli aut aut odierni del tipo “con noi o contro di noi” o “come vogliamo noi o niente”. Non sono posizioni che dimostrano forza, purezza o rettitudine politica: sono una incontrovertibile prova di debolezza. E i primi ad indebolirsi sono i rappresentati, i comuni cittadini. È necessario che il compromesso ritorni nelle stanze di Palazzo Madama e di Palazzo Montecitorio. È ora che si ritorni a fare Politica.

12 commenti su “Non c’è #politica senza compromesso”

  1. E’ quello che provo sempre a spiegare ad amici e conoscenti: la vera democrazia è l’accordo tra tutti (o la maggior parte, almeno), non certo la dittatura della maggioranza (o, più precisamente, della minoranza maggiore)

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