Una carezza non cancella la notte della Diaz

Gentile Vincenzo Canterini,

le scrivo in risposta alla sua lettera pubblicata su “Il Tempo”  dopo gli scontri seguiti allo sgombero di una palazzina romana nei giorni scorsi. Ammetto che non saprei come rivolgermi a Lei, nel corso degli anni ho seguito le sue tracce e le tracce di tanti suoi colleghi presenti nella scuola Diaz ai tempi della famigerata notte della “macelleria messicana” e ora sono abbastanza stanco di vedere come il processo democratico e meritocratico del nostro Paese vi abbia portato a fare inopinatamente carriera dopo quei fatti.

Inutile girarci attorno: quando leggo di Lei, la mia mente va subito a quella scuola e a quella notte. All’epoca avevo 13 anni. Mio padre e mia madre erano comunisti convinti e io stavo approcciando la politica in modo un po’ più critico rispetto ai puri ideali, più dal lato dei disobbedienti, degli anarchici, dei comunisti, come ogni adolescente desideroso di cambiare il mondo. Erano i tempi delle prime magliette di Che Guevara, delle prime manifestazioni (e, sarà strano, non delle prime canne, quelle sono arrivate molto dopo).

Ricordo bene l’orrore e il disgusto di quanto successe in quei giorni a Genova, giorni in cui più che parlare dei problemi del mondo sembrava fosse in atto una caccia all’uomo, una prova tecnica di quella che ai tempi definii una dittatura fascista. Ricordo lo schifo che provai subito dopo un evento organizzato a Milano, nel mio quartiere, incentrato sul parallelismo fra la morte di Carlo Giuliani e quella di Luca Rossi, ambedue uccisi da un poliziotto dal grilletto facile. Quella sera c’erano Heidi Giuliani, l’avv. Giuliano Pisapia (che mi stregò totalmente), ma soprattutto c’erano i racconti di chi nella Diaz quella notte aveva visto i caloriferi che grondavano sangue, i manganelli sui denti, le persone trascinate giù dalle scale come sacchi dell’immondizia.

Perché questa lunga premessa? Per farmi perdonare per i contenuti di questa mia lettera, sicuramente “sporcati” da quella che sarà la mia soggettività nell’affrontare il tema. Nella sua lettera lei parla di “carezza alla Diaz”, dei ragazzi fantastici del Settimo Nucleo, i ragazzi che quella notte hanno visto la morte in faccia. Mi domando quali carezze abbia ricevuto Lena Zuhlke (prima alla Diaz e poi a Bolzaneto), mi domando quali carezze abbia ricevuto Arnaldo Cestaro, che probabilmente avrebbe preferito riceverle dai suoi nipotini piuttosto che da qualche poliziotto di chissà quale reparto (del resto, come distinguere i suoi angeli dalle bestie presenti quella sera? Non esiste un numero identificativo sul casco, nulla). Mi domando chi, quella notte, abbia realmente visto la morte in faccia: i suoi splendidi ragazzi o i giovani manifestanti che erano coricati sul pavimento di una scuola?

Non è bastato il sentimento popolare a farvi vergognare per i fatti di quella notte, non è bastata la condanna di una Corte estera, non vi è bastato il sangue innocente versato in quei giorni tra piazza Alimonda, la Diaz e Bolzaneto. Non incolperò mai un intero Corpo dello Stato, né farò mai di tutta l’erba un fascio: ho conosciuto poliziotti buoni e poliziotti meno buoni, ho conosciuto carabinieri di un’umanità rara come carabinieri estremamente poco professionali. Come non lo permetto a me stesso non permetto a Lei e a voi poliziotti la retorica del “noi rischiamo la vita tutti i giorni”: io non rinfaccio a nessuno i rischi del mio mestiere e sono abituato a pagare le conseguenze dei miei errori.

La carezza a quel migrante non cancellerà MAI l’infamia di una delle pagine più tristi della storia del nostro Paese e la relativa figura barbina agli occhi del mondo tutto. Io non so cosa fecero i suoi splendidi ragazzi del Settimo Nucleo quella notte, so solo che nessuno (e quindi neanche Lei) fece nulla per impedire quella “macelleria messicana”, Lei che ai tempi era responsabile del I Reparto Mobile della Polizia di Stato.

So solo che quella pagina infame, oggi, cerca una catarsi da parte vostra, del vostro Corpo e del vostro senso d’appartenenza, incapace di reggere il peso dei manganelli che rullavano sui caloriferi di quella scuola, del sangue versato e degli innocenti picchiati senza motivo (ricorda? Lei stesso a processo dichiarò che non ci fu alcuna resistenza all’irruzione!). Credo che nella vita ci voglia sempre un incontro tra carnefici e vittime, ognuno dei quali porta con sé un enorme fardello a livello emotivo: chi il senso di colpa, chi le ferite. Ma siete voi i feriti di quella sera? Siete voi quelli che hanno subito le angherie di un Corpo dello Stato adibito alla difesa del cittadino? Siete voi che avete vissuto sulla pelle la più grave sospensione dei diritti umani nella storia della Repubblica Italiana?

No signor Canterini, non ha subito Lei queste cose, non le hanno subite gli splendidi ragazzi del Settimo Nucleo, non le ha subite il sig. Fourier né la Polizia Giudiziaria (o chi per loro) a Bolzaneto. Non sarà lo svolgere egregiamente il vostro dovere a cancellare quella notte e quella pagina triste della nostra Repubblica, non sarà una carezza a realizzare una catarsi nella testa di chi, come me, ha avuto i conati di vomito di fronte a quelle scene. Non sarà tutto questo. L’accettazione e il perdono sono strade lunghe e difficili e non si percorrono con atti di buonismo, vittimismo e difesa a spada tratta dei suoi uomini e del vostro operato, postumo, presente e futuro.

Queste sono le parole di chi vuole fidarsi ancora di voi e crede in uno Stato di Diritto, spero ne faccia buon uso e possa perdonarmi per la verve soggettiva che ha sicuramente contraddistinto questa mia lettera.

Con sincerità,

Giorgio Pittella