Enrico Rossi: “La #Sinistra torni a rappresentare i ceti popolari”

Alla Festa Nazionale de l’Unità in corso a Catania il gazebo adibito a libreria è occasionalmente visitato da giovani tesserati, quadri di partito, passanti poco politicizzati che vengono catturati più dai volumi fantasy che dai saggi di Rodotà esposti appena accanto. In effetti la varietà dei libri esposti è una fotografia di cosa sia il Partito Democratico: biografie di Che Guevara e instant-book su Matteo Renzi, l’immancabile Berlinguer a due passi da Harry Potter, Luciano Gallino e Geronimo Stilton. Una grande tenda per un partito plurale, in cui a pochi giorni dalle visite di Farinetti e Alfano viene presentato Rivoluzione socialista, saggio di Enrico Rossi dal titolo ben lontano dalle velleità della gauche caviar. Governatore della Toscana e da qualche mese candidato alla segreteria del partito, Rossi parla di una sinistra razionale ma creativa, che non abbia paura delle ideologie pur senza rimanerci intrappolata. Insomma, Sanders e Corbyn piuttosto che Clinton (entrambi) e Blair.

Lei parla di Rivoluzione Socialista, ma sembra che proprio i partiti socialisti negli ultimi anni abbiano virato a destra. Perché si è lasciato che accadesse?

Credo che sia prevalsa nel mondo occidentale una cultura che ha attribuito a questi partiti una funzione di razionalizzazione dell’esistente, piuttosto che di cambiamento dello stato sociale per tutelare i ceti popolari anche nella fase di globalizzazione della società. Questo ha fatto sì che sia venuta meno una critica razionale dell’esistente, lasciando spazio al massimalismo, al populismo. Forme di irrazionalità che minacciano le conquiste fatte in ambito europeo.

Sembra quasi ovunque che l’ascesa di una sinistra di lotta e di governo sia legata ad un movimento sociale: Occupy Wall Street, Indignados, Nuit Debout… in Italia però non ce n’è uno. Che fare?

In Italia c’è un movimento pigliatutto, il M5S, verso cui si indirizza la protesta senza un’ideologia precisa: antieuropeista, contrario alla sinistra ma allo stesso tempo demagogico quando propone il reddito di cittadinanza, vicino a Farage e ai nazionalisti nel Parlamento Europeo. Le forme con cui la protesta si sviluppa sono varie in tutto il mondo. A volte si tratta di una sinistra priva di riferimenti partitici, altre volte invece si indirizza persino sulla destra e assume l’ideologia del razzismo. Io penso che il compito della sinistra sia quello di tornare a rappresentare i ceti popolari, affiancare e mobilitare il desiderio di impegno dei cittadini per cambiare l’economia, combattere la disoccupazione e far sì che la crisi sia anche un’occasione di giustizia.

Il capitalismo va gestito o superato?

È un dibattito che appartiene molto al secolo scorso. Di fatto abbiamo avuto trent’anni di dominio del capitalismo nella forma più brutale, senza regole né capacità della politica almeno di correggere le diseguaglianze e le contraddizioni più acute che ha prodotto. È venuto il momento di avere un ruolo attivo dello Stato attraverso degli investimenti e delle regole che correggano le distorsioni che lo sviluppo capitalistico produce. In generale appartengo a coloro che pensano che la lotta per il socialismo sia un movimento ininterrotto sul piano delle libertà personali e della conquista dei diritti sociali. Un movimento che può avere anche fasi di regresso, come quella che abbiamo avuto.

Per lei, comunista democratico, che ruolo ha la democrazia economica nell’organizzazione della società?

Penso sia importantissima e credo che sempre più sia necessario muoverci verso forme di partecipazione e coinvolgimento dei lavoratori alla conduzione delle aziende. Forse un limite profondo del Jobs Act è proprio quello di concepire una logica gerarchica all’interno delle imprese: istituisce la libertà di licenziare, consente il demansionamento e addirittura di riprendere i dipendenti al lavoro. Questa prospettiva non tiene perché dopo l’intensificazione dei ritmi di lavoro, che è stato anche uno sforzo collettivo dei lavoratori per far fronte alla crisi, sono convinto che sia necessario procedere a fasi di redistribuzione e coinvolgimento, appunto. Altrimenti alla lunga le tensioni rischiano di esplodere. Questa gerarchizzazione va in conflitto anche con mutamenti più all’avanguardia che si stanno verificando nel mondo del lavoro, perché in tanti settori contano sempre di più la scienza e il sapere, richiedendo una partecipazione consapevole del lavoratore stesso. È evidente che egli stesso come persona debba essere coinvolto nelle decisioni aziendali. Sono anche convinto della redistribuzione, almeno in parte, dei benefici e dei profitti. È un processo che la sinistra in Italia non ha mai affrontato fino in fondo, ma penso che i tempi siano davvero maturi. Peraltro la Costituzione ne parla esplicitamente più di una volta, a cominciare dai principi fondamentali fino ai rapporti economici.

Così come parla dell’impresa cooperativa.

Questa forma potrebbe essere utilizzata e incentivata anche nella crisi, più di quanto non si sia fatto. Allo stesso tempo, dopo trent’anni di dominio dell’ideologia neoliberista che ha pervaso anche settori del mondo cooperativo, la crisi impone che si vada a rifondare questo movimento sui suoi valori di mutualità e solidarietà. Che non significa non essere economici e non stare sul mercato, ma far sì che le cooperative siano davvero strumenti di partecipazione dei lavoratori.