Oggi, cinquant’anni fa, Martin Luther King si metteva alla testa di una marcia di attivisti che rivendicavano il proprio diritto a partecipare alla vita democratica degli Stati Uniti d’America. Partita da Selma, la marcia voleva raggiungere Montgomery, la capitale dello Stato, ma fu bloccata dalla polizia, che caricò e manganellò senza pietà. Quel giorno viene ricordato ancora oggi come “Bloody Sunday“. King e gli altri attivisti non si diedero per vinti, ci riprovarono due giorni dopo, e poi ancora il 21 marzo, quando l’allora presidente Johnson inviò l’esercito da Washington per proteggere la marcia (il governatore dello Stato Wallace si era rifiutato). La marcia arrivò così a Montgomery e grazie a quella battaglia nacque il Voting Rights Act.
Oggi, a cinquant’anni da quella marcia, l’anniversario viene tragicamente inaugurato con la morte di un ragazzo nero, Anthony “Tony” Robinson, ferito a morte da un poliziotto mentre si trovava disarmato in casa sua, a seguito di una colluttazione (la dinamica non è ancora chiara). Negli USA patria della libertà, ci sono ancora troppe persone che libere non sono. Basti ricordare le tante altre vittime, lasciate impunite, responsabili di omicidi ben più efferati.
Cinquant’anni dopo, il diritto di voto è assicurato, ma il diritto all’eguale dignità nella società no. Il nero, così come l’omosessuale o comunque colui che viene etichettato come “deviante” dalla maggioranza, continua a godere, quando ne gode, solamente di diritti apparenti sulla carta ed è costantemente discriminato e usato come capro espiatorio dei peccati della società.
Finché non verrà superato questo, ogni proclama e manifestazione di solidarietà da parte delle classi dirigenti diventano solamente un vuoto esercizio di retorica. Con buona pace dei benpensanti perbenisti che per lavarsi la coscienza si presentano ogni domenica in Chiesa.