#Siria: la #rivoluzione impossibile

Nessuna forza di polizia, nessuna galera. Un uomo che picchia la moglie viene spontaneamente ostracizzato dalla collettività. Un piccolo governo centrale, con soli compiti organizzativi, è composto da almeno il 40% di donne.

No, non è una città scandinava all’avanguardia, è Rojava, una regione compresa tra Siria, Iraq e Turchia.

Ormai anche i giornali più mainstream hanno parlato dell’YPJ, l’organizzazione paramilitare kurda composta da sole donne (e sorella dell’YPG) che sta combattendo l’ISIS e l’esercito siriano. Vincendo il più delle volte. Sono loro che hanno salvato migliaia di Yazidi e hanno protetto la città di Kobani dai carri armati e dai droni dell’ISIS. Certo, la situazione del rifornimento di armi (ovvero: chi finanzia chi?) in Medio Oriente è tutt’altro che semplice: mentre l’ISIS, come riportato da Conflict Armament Research, utilizza principalmente armi di provenienza americana e saudita (ma non è così automatico dire che i due stiano direttamente finanziando l’ISIS), il rifornimento ai gruppi resistenti kurdi ha tenuto banco nei Parlamenti di mezza UE, da Cameron a Hollande passando per l’Italia. Anche per questo la natura e la forma del conflitto risulta complicata, ciò che è certo, almeno dal mio punto di vista, è che molta meno “esportazione di democrazia” da parte dell’Occidente ieri, avrebbe generato molte meno teste mozzate oggi. Il conflitto che si sta sviluppando in Medio Oriente mi ricorda, con le dovute proporzioni, la guerra in Jugoslavia, la prima in cui fu finalmente chiaro all’opinione pubblica che i buoni e i cattivi non esistono nella vita reale.

Nel frattempo a Rojava, analogamente al caso greco e a quello spagnolo del 1936, si sta sperimentando un modo di condurre i rapporti sociali alternativo al capitalismo e allo Stato. A cui non mancano però le critiche.

Il Confederalismo Democratico, come lo chiamano nei cantoni di Rojava, è stato accusato infatti di utilizzare ragazze minorenni nella guerriglia: è vero che le bambine sopra i 12 anni cucinano e puliscono per le militanti dell’YPJ e sono sottoposte a un training militare di base, ma non ci sono a tutt’oggi prove che vengano impiegate come bambine-soldato. Certo non sono particolarmente favorevole all’uso di minori in qualsivoglia attività lavorativa e ancor più militare, ma è necessario un certo disincanto quando ci si trova di fronte a una forza resistente: c’erano ragazzini a tirare pietre contro i carri armati israeliani lo scorso dicembre e c’erano sicuramente minori che facevano le staffette durante la Resistenza italiana. La guerra per alcuni bambini è vita quotidiana e la colpa, per quel che mi riguarda, è di chi la guerra la vuole e la fa.

L’altra critica si basa sulla connessione col PKK di Abdullah Ocalan che è stato accusato, principalmente dal governo turco, di essere un’organizzazione dedita anche al narcotraffico, con un mercato che arriva fino alla Romania. Va poi evidenziato che molti dei combattenti sperano, una volta battuto l’ISIS, nella futura creazione di uno Stato kurdo (col benestare americano), considerando quella di Rojava una situazione transitoria.

Quale sarà il futuro di questo esperimento ce lo dirà perciò solo il tempo. Resta però il fatto che un’organizzazione sociale alternativa è non solo realizzabile, ma costantemente presente nel mondo e avviene in maniera del tutto indipendente dallo sfondo culturale: questo perché si tratta di processo spontaneo che, a differenza del potere centralizzato (specialmente quello finanziario/economico), massimizza l’efficienza minimizzando le disuguaglianze ed è verso questo modo di vivere che cammina inesorabilmente la Storia.