Nel 753 A.C. secondo la leggenda, Romolo divise la popolazione romana in Patrizi e Plebei. Ai primi andò l’organizzazione della cosa pubblica, ai secondi il lavoro e la produzione per il sostentamento della città. Da quel momento Roma fu, fino ad Augusto (primo Princeps) una Repubblica. O almeno lo fu sulla carta. Una repubblica oligarchica, sia chiaro. Sono passati 2768 anni, e Roma è sempre qui. Non più Urbe, ma capitale. Non più in un Repubblica oligarchica, ma in una repubblica democratica. Ci sono voluti quasi ventisette secoli per importare quella sublime invenzione proveniente dalla Grecia chiamata democrazia. Che etimologicamente vuol dire esattamente “governo del popolo”. Ma questo nostro popolo, che potere ha davvero?
Per quanto i senatori della Roma repubblicana fossero tali per diritto di nascita, ricordiamo tutti la considerazione e il timore che avessero per la massa dei plebei. Ricordiamo tutti le rivolte della plebe e le conseguenti conquiste politiche del ceto basso della popolazione. Ricordiamo tutti una fazione politica che iniziò ad affermarsi verso la fine del secondo secolo A.C, i Populares, che traevano il proprio potere proprio dal consenso della plebe. Come ricordiamo tutti cosa fecero Gaio Mario prima e poi Caio Giulio Cesare con il consenso della folla. E così fu anche per l’Impero. Nella storia della Roma Antica mai chi deteneva il potere poté ignorare il popolo. Tanto da coniare l’affermazione demagogica “panem et circenses”.
Oggi viviamo una società di eguali, non più patrizi, non più plebei. Eppure, proprio in virtù di questa sostanziale uguaglianza il ceto politico ha perso quel timore reverenziale per il popolo. La plebe non fa più paura a nessuno. Il popolo e il suo consenso sono diventati lo strumento del potere. E saranno passati migliaia di anni, ma la demagogia resta il mezzo principe per accaparrarseli, solo che ora lo chiamiamo “populismo”. I ceti bassi, in virtù della legittimità del ceto dominante, hanno perso l’unica arma che avevano, la concreta minaccia di una ribellione. Le disuguaglianze sociali sono legali e legittime. Verrebbe quasi da chiedersi, con punta di provocazione, a cosa ci è servito diventare democratici?
Eppure l’incapacità del popolo di far sentire la propria voce e l’impossibilità delle classi meno abbienti di intimorire la politica, non sono che democratiche illusioni. La legittimità di chi governa proviene si dall’uguaglianza, ma non può essere motivo di astinenza dalla critica e dalla lotta. Proprio in questa direzione dobbiamo compiere un ulteriore passo in avanti. Per chi governa non può più essere sufficiente la legittimazione democratica. L’interesse per il benessere del popolo non può più essere nascosto dalle maschere della demagogia. E il popolo, e solo il popolo, ha il potere di strappare queste maschere. Potere che la stessa democrazia, per mezzo dei suoi limiti, nasconde alle masse. La presa di coscienza diviene quindi l’unica arma per smascherare il teatro della demagogia.
Presa di coscienza che non possiede che un nemico, se non le masse stesse. Quando la mala gestione della cosa pubblica diventa evidente, il popolo, avendo perso l’arma della rivolta, sembra ripiegare sulla sfiducia. Sfiducia nella politica, o per meglio dire, nella classe politica dirigente. Come se essa fosse qualcosa di estraneo, di alieno, qualcosa di lontano dalla vita delle persone comuni. Come se chi si occupa del benessere dello stato appartenesse ad una diversa classe sociale. Una casta appunto, come spesso viene chiamata. Ed ecco come, dopo 2768 anni, torna l’oligarchia. Non più imposta da un mitico ecista, ma creata nella mente del popolo stesso. Alla luce di ciò, nella nostra società di liberi ed eguali, siamo davvero tali?
Tuttavia l’idea che ci sia qualcosa di terribilmente marcio in questa democrazia non è di certo nuova. Un tale “signor G” si interrogava su quanto la libertà e l’uguaglianza che abbiamo conquistato, non ci abbiano portato poi così lontano.
“Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come un uomo che ha bisogno
di spaziare con la propria fantasia
e che trova questo spazio
solamente nella sua democrazia.
Che ha il diritto di votare
e che passa la sua vita a delegare
e nel farsi comandare
ha trovato la sua nuova libertà.”
(Giorgio Gaber, La Libertà)