Un aquilone e una bambola, il dramma dei bambini soldato

Un aquilone. Ho sparato per la prima volta a 13 anni. O forse a 14. Mi hanno detto di dimenticarmi la mia età. Io l’ho dimenticata. Ho dimenticato la mia infanzia. Se mai ne ho avuta una. Mi hanno rapito nel mio villaggio. Mi hanno messo in mano un fucile. Mi hanno detto: ‘Uccidi’. Non capivo. Li, davanti a me, c’era il mio migliore amico. Mi hanno drogato. Avevo un coltello puntato sul collo. Ho sparato. Qui, sdraiato su una panchina di Roma, non c’è notte che non senta il rumore di quello sparo. Che non veda le lacrime del mio amico. Perché non ho chiuso gli occhi quando ho sparato?

È stato il mio battesimo. Ho ucciso tante altre volte. Non ricordo quante. Ogni vita, ora, è un urlo nella mia testa. Bevo, per farli smettere. Bevo, per non ricordare. Per non ricordare quando i miei amici mi cacciarono. Per non ricordare quando mi chiamarono rinnegato. Per non ricordare che pesavo 30 kg. Solo la vista del mare placa un po’ i miei sensi di colpa. Ogni tanto ci vado. E una volta vidi dei bambini che facevano volare uno strano oggetto. Gli chiesi cos’era. Mi dissero che era un aquilone. Non l’avevo mai visto prima. Rimasi ore a guardarli. Rimasi ore a guardare quell’innocenza che avrebbe potuto salvare la mia anima. Ricordo come arrivai qui. Su un barcone. Accanto a me c’era un ragazzo. Poteva avere la stessa età che avevo io quando imbracciai il fucile per la prima volta. Mi riconobbe. Si fece la pipì addosso. Era con sua madre. Mi guardò con gli occhi terrorizzati. Mi disse che avevo ucciso suo padre. Gli chiesi scusa. Piansi. Non ero io ad aver ucciso suo padre. Era stato quello che avevano fatto di me. Non lo avrei ucciso se in mano, invece di un mitra, mi avessero messo un aquilone.

Una bambola. Mi hanno stappata dalle braccia di mia madre a 14 anni. Mi hanno portata al loro campo. Mi mandavano avanti e indietro a cercare cibo. Dovevo cucinare per tutti. Dovevo pulire gli angoli dove facevano i loro bisogni. Mi hanno violentata. A turno. Non hanno avuto bisogno di fucili per uccidermi. Hanno usato un metodo peggiore: mi hanno lasciato vivere.

Ogni notte quando chiudo gli occhi vedo uomini su di me. Ogni notte li sento. Sono una prostituta. È l’unica cosa che mi hanno insegnato. Non mi hanno insegnato ad essere mamma. Dopo uno dei tanti stupri rimasi incinta. Riuscii a scappare. Ma nel mio villaggio non ne vollero sapere di me. Non ne volevano sapere di ‘un figlio dei ribelli’. Dovetti fuggire ancora. I ribelli mi ritrovarono e si presero mio figlio. Dopo una decina d’anni sarebbe stato un ottimo soldato da mandare al macello.

Sono partita per l’Italia. Non so cosa mi aspettassi di trovare. So solo che un giorno ho visto una bambola in un negozio. L’ho comprata. Non permetto a nessuno di toccarla. Ogni mattina, dopo una lunga notte, quando mi metto a letto la accarezzo. È la bambina che non sono stata. E che nessuno toccherà mai.

Non ho messo nomi né luoghi. Perché non si tratta di due storie in particolare. Sono due storie inventate, ma le atrocità descritte sono accadute davvero. Sono le storie di 250.000 bambini e bambine. Costretti a diventare soldati. A perdere la loro innocenza.

A tutti voi: siete le vittime, non i carnefici. A tutti voi, un aquilone e una bambola.