Ideologia non è una parolaccia

A volte vivere nel 2014 è difficile. Siamo avvolti da una frenesia costante, che non lascia tregua. Un imperativo bisogno di correre, facendoci largo tra centinaia di stimoli che bombardano il nostro cervello da ogni direzione. Tecnologia, pubblicità, crisi: tre parole che ci danno l’idea di come il materialismo ci abbia invasi e spesso abbia fatto grossi danni. Non parlo di nostalgie dei “bei vecchi tempi”, mi riservo questo tipo di riflessioni per la vecchiaia. Ma è difficile non restare disorientati quando il linguaggio politico si trasforma fino a ripudiare un termine che oggi è evitato come la peste e semmai utilizzato per attaccare gli avversari: l’ideologia. Specie negli ultimi periodi, tra una stoccata alla Cgil e un ceffone allo Statuto dei lavoratori, pare che la forma migliore di politica sia quella quadrata del pragmatismo assoluto.

D’altra parte, non avere un’ideologia è anche comodo. Ci si può barcamenare a destra e a manca senza troppa preoccupazione, giustificandosi con le scuse più opportune. Invece averne una è impegnativo come un contratto a tempo indeterminato e appassionante come il mestiere dei propri sogni. È una relazione, bisogna essere fedeli a quell’idea e stare attenti a non tradirla: nessuno sa se sarà capace di rispettare l’impegno e molti faranno degli errori, eppure il mondo va avanti così da un bel po’.

Basta che non diventi un dogma: è proprio questo il punto. Si vogliono ridurre gli ideali a vecchia zavorra, roba dei tempi di falci, martelli e scudi crociati. Adesso, a parte l’opportunismo politico, perché accade ciò? Per tutto il Novecento lo scontro tra le ideologie ha assunto un aspetto inquietante e bellicoso. Oggi potrebbe essere tutto diverso, grazie alla fine dei blocchi contrapposti. Potremmo ragionare in modo disteso e razionale sulle filosofie politiche, piuttosto che preferire il disimpegno culturale. Invece stiamo soffrendo una reazione alla violenza dello scontro politico del secolo scorso, culminata con la convulsa fine dell’Urss, una ninna nanna di consumismo in cui la politica si è trasformata in mera gestione del potere.

Adesso però l’ubriacatura della caduta del Muro di Berlino è durata fin troppo. Dobbiamo capire che quella fase è finita e che, se davvero siamo in grado di imparare dagli errori del passato, ci si può confrontare serenamente sugli ideali, ravvivandoli e facendo nascere una nuova stagione politica. Vogliamo contenuti, non slogan. Esempi da emulare, non macchiette comiche. Dibattito culturale, non reality show. La Sinistra dovrebbe capirlo, invece spesso è invischiata nel suo più grande difetto: quello di considerarsi un’élite intellettuale, l’avanguardia del popolo che però da quel popolo non riesce a farsi capire. Forse perché non è ancora riuscita a rinnovarsi. Forse perché il popolo non vuole più ascoltare, chissà.

Certo è che il cancro italiano sono stati vent’anni di berlusconismo. Non solo per i processi, le figuracce internazionali, le leggi ad personam e quanto altro è possibile ricordare delle malefatte dell’ex premier. Berlusconi ha svuotato di significato la politica, l’ha ridotta a gossip. A forza di sbraitare contro i comunisti, non si è capito più chi fossero (vuoi anche perché la questione morale è andata farsi benedire con Tangentopoli). Improvvisamente la ragazza avvenente degli scatti rubati o la campagna acquisti del Milan sono diventate questioni d’interesse nazionale, banalizzando tutto ciò che era rimasto degno di rispetto nella bistrattata Italia. È una forma mentis, la nostra generazione è cresciuta con questo nuovo senso di superomismo mediatico. Da D’Annunzio a Berlusconi. Bell’acquisto abbiamo fatto.

Una soluzione? Scendiamo in piazza. Parliamo con la gente, facciamo azioni concrete per dare un significato a questa modernità vuota che tanto viene celebrata. Impegniamoci nel sociale, diffondiamo la nostra voce nel modo migliore che abbiamo. I social network sarebbero già un buon inizio, se fossimo capaci di ripulirli dalla spazzatura che ospitano. Interroghiamoci tutti insieme su dove stiamo andando, chiediamoci che mondo lasceremo ai nostri figli e in che modo rivoluzionarlo per renderlo un posto migliore. Basta essere spettatori. Siamo cittadini.