Ci dicono che l’Italia non è un paese per giovani e hanno anche ragione. Del resto, dal 2008 ad oggi gli under 35 che lavorano sono due milioni in meno. Il problema è che a forza di sentircelo ripetere ci stiamo convincendo che sia tutto normale. È così, la crisi fa il suo corso. Verrà un tempo in cui tutti staremo meglio, l’economia sarà in grande crescita e l’ottimismo sarà all’ordine del giorno. Sì, ma quando? Perché trascurando l’assurda capacità del capitalismo di trasformare in normale ciò che non lo è, come un tracollo fatto di speculazione e finanza ombra, non ci resta ancora molto tempo. Ci si arrovella da più parti per trovare il bandolo della matassa, ma alla fine i risultati sono sempre poco incisivi. Forse perché loro non hanno ancora capito che i giovani sono il motore della società, che se i neolaureati non lavorano porteranno le loro idee da qualche altra parte nel mondo. Forse non si sono accorti del tutto che la nostra generazione ha un grande potenziale. Oppure lo hanno compreso ed è proprio per questo che vogliono tenerci alla larga dalle posizioni che contano.
“Loro” non è riferito ad un’oscura lobby di ottuagenari straricchi che banchettano nella stanza dei bottoni, meglio lasciare il populismo ad altri che si accontentano di giocare al complotto. “Loro” sono semplicemente la classe dirigente che ha fatto sprofondare l’Italia. Sono quelli che hanno fallito nella politica, nell’impresa, nel sindacato. Spesso in più di un ambito tra questi. Naturalmente non dobbiamo generalizzare: esistono ancora politici scrupolosi, imprenditori onesti (per quanto io non condivida di per sé la struttura piramidale dell’azienda), sindacalisti che credono nel valore del lavoro. Ma sono sommersi da una palude di malaffare tutta italiana, sviluppatasi negli anni della “democrazia bloccata” in cui la Dc, il Psi e non solo si spartivano ministeri e incarichi pubblici.
Oggi lo scenario è cambiato. Non possiamo pensare che il nostro curriculum somigli ai tabellini di quelle vecchie bandiere del calcio anni Sessanta, che cambiavano maglia una o due volte nella loro carriera. Andiamo incontro ad un futuro in cui la formazione è continua, la crescita professionale è costante, le buone idee sono quelle contano. È necessario metterci in testa che “loro” non ci regaleranno mai nulla. Proprio per questo motivo non ci rimane altra scelta che metterci in gioco, dare il meglio di noi stessi, prendere a cuore una causa, credere in qualcosa. La disaffezione non ci condurrà da nessuna parte. Bisogna che ci mostriamo affamati e pronti non solo a ricevere responsabilità, ma addirittura ad esigerle. Perché è naturale che un giovane al primo impiego faccia lo stagista e cinque anni dopo sia capace di portare avanti un progetto con le proprie forze. Non lo è altrettanto sentirsi dire fino ai quarant’anni che non si ha la maturità necessaria, per essere considerati subito dopo dei dinosauri improduttivi.
Aprire il fuoco tra generazioni è inutile: basta un’alleanza oculata. Con chi? Chiediamoci cosa voglia dire essere giovani. Non è un concetto puramente anagrafico, ma psicologico. Chi si trincera nei propri dogmi, chi accetta di conformarsi ad un sistema moribondo per assicurarsi sempre di vincere, è vecchio. Attenzione: vecchio, non anziano. L’anzianità è una questione fisica che i geriatri e l’Inps conoscono bene, ma chiunque abbia una mente elastica, disposta al dialogo, degli ideali per cui vivere, speranze e valori su cui costruire un futuro… beh, eccoli i nostri giovani. Non importa che abbiano diciotto anni od ottantuno, abbiamo bisogno che il meglio della generazione di ieri e la gran parte di quella attuale collaborino. L’esperienza dei primi e l’energia dei secondi può fare miracoli, anche per una realtà decadente come la nostra. Incontriamoci prima di inabissarci, potremmo scoprire che in fondo i nostri sogni sono gli stessi di quelli di tanti anni fa. Potremmo far capire che non tutto è perduto. La nostra sarà una lotta intelligente, pacifica e costruttiva. La nostra sarà una lotta responsabile.