Gli Stati Uniti sono usciti dalla crisi economica. Il tasso di disoccupazione è sceso al 5,9%, dato più basso dal luglio 2008, poco prima che il paese sprofondasse trascinando con sé tutta l’Europa. Che però rimane ancora impantanata e con poche speranze di risollevarsi, allo stato attuale. L’infornata di 300 miliardi promessa da Juncker è uno spunto interessante, ma ancora pieno di zone d’ombra, troppo incentrato su una sconsiderata fiducia alle banche ed eccessivamente prudente nei confronti degli stati forti come la Germania. Perché va bene tenere sotto controllo il debito pubblico, ma cercare di attuare riforme strutturali senza una politica di interventi statali è poco efficace.
Prendiamo ad esempio la tanto osannata flessibilità sul lavoro: giusto, oggi lo scenario è cambiato e così non possiamo aspettarci che un giovane venga assunto a vent’anni e mantenga lo stesso posto di lavoro fino alla pensione. Ma ci sono dei paletti ben precisi da rispettare, come vigilare che le nuove leve possano sfruttare i loro primi anni nel mondo lavorativo per acquisire nuove competenze ed esperienze, essere valorizzati e responsabilizzati. Occorre però, ad un certo punto, dare a questi giovani la certezza di un posto stabile, oppure il rischio è che una sana flex generation si trasformi in un popolo di precari oggi ed esodati domani.
Abbiamo trovato la soluzione per la riforma del lavoro? Decisamente no. Manca l’ingrediente fondamentale, gli investimenti pubblici che possano creare nuovi posti di lavoro. Se non c’è questo, corriamo il serio rischio di aggravare la situazione. Ed ecco che giunge il richiamo al rigore da parte dell’Unione Europea, con i suoi vincoli da rispettare. Provate ad adattare il nostro esempio sul mercato del lavoro alle politiche riguardanti l’istruzione, la ricerca, le startup, il mercato immobiliare. Quel che manca è sempre la mano statale, che non può elargire di più, né tagliare le tasse. Il risultato è che si ricorra alle privatizzazioni, allo smantellamento del welfare, a quelle stesse politiche neoliberiste che hanno trascinato il mondo nella crisi.
Così non si va avanti e lo dimostrano i fatti. Persino l’economia della Germania, anche se condizionata dalla crisi ucraina, è in fase di stallo. La Francia ha deciso di infrangere i limiti imposti da Bruxelles nel rientrare in regola con il rapporto deficit/Pil, mentre l’Italia mantiene ancora un’ambigua posizione di rispetto dei “compiti assegnati” e un’opposizione ancora solo formale a certe scelte europee che bloccano la crescita. L’economista francese Thomas Piketty ha più volte espresso il proprio dissenso nei confronti dell’austerity e dell’inefficienza delle istituzioni europee. La sua critica è rivolta soprattutto alla disomogeneità dei sistemi fiscali: nessun paese può aumentare troppo le tasse sulle multinazionali, ad esempio, perché queste possono decidere immediatamente di trasferirsi in un’altra zona dell’Ue in cui la pressione fiscale sia minore. La soluzione prospettata da Piketty è una politica comune in proposito, ma proviamo effettivamente ad immaginare quali sarebbero gli effetti di un’unione più salda tra gli stati membri, prima di tutto a livello politico: meno competizione e più collaborazione, omogeneità e democrazia, maggiori stimoli a prendere decisioni nell’interesse di tutti. Questa è l’Europa dei popoli su cui ogni giorno si spreca la retorica.
Perciò è necessaria un’alleanza tra i paesi più colpiti dalla crisi, perché ci si impegni finalmente a dare inizio ad un processo serio che all’unità monetaria di oggi faccia seguire quella politica, per raggiungere un vero equilibrio ed applicare riforme radicali e molto più efficaci. Contro le sirene populiste che gridano allo smantellamento dell’Unione Europea, pensiamo seriamente a rinforzarla: per andare avanti in una realtà globale così complessa si può solo essere uniti.