Il sultano #Erdoğan, la mezzaluna e le dodici stelle

C’è sempre qualcosa di italiano nelle rivolte e nelle rivoluzioni moderne: sentire nominare da leader politici greci o sudamericani Gramsci e Berlinguer lascia sempre dentro il vuoto della loro assenza nel pensiero e nell’agire dei boss dell’attuale sinistra nostrana.

Quando però senti ‘çav bella’ – ossia ‘Bella ciao’ in lingua turca – per le piazze e le vie di Istanbul, di Ankara, di Smirne, capisci che l’Italia non ha soltanto esportato mafia e modelli negativi quali il berlusconismo o il malaffare, ma anche ideali di lotta pacifica ma continua contro la schiavismo culturale e sociale desiderato e propagandato da certa classe politica.

Perché, diciamolo chiaramente, ciò che sta accadendo nella Repubblica di Turchia è un chiaro segnale tanto all’Occidente quanto al Vicino Oriente di un “ritorno alle origini”, e precisamente a pochi anni prima che Mustafa Kemal Ataturk fondasse dalle ceneri dell’Impero Ottomano la moderna Turchia. Recep Tayyip Erdoğan ha vinto, e questo è un dato di fatto: sul 76% dei votanti, l’ex sindaco di Istanbul ha ottenuto ben il 52% dei consensi, battendo il moderato Ekmeleddin İhsanoğlu, candidato di destra sostenuto dal Partito Popolare Repubblicano (CHP), fondato da Ataturk e di ispirazione socialista, e dai Lupi Grigi (l’estrema destra nel panorama politico turco), e il curdo Selahattin Demirtaş, sostenuto più in generale dai partiti a sinistra del CHP.

Capiamo tutti benissimo che il moderato Erdoğan (N.d.A. dove moderato è traducibile con “religioso, estremista, e retrogrado”, proprio come lo è il moderato italiano) con quelle percentuali ha carta bianca sulla nazione del Bosforo adesso più che nel passato: nel posto che un tempo fu del “padre dei Turchi”, Erdoğan, come primo presidente della Repubblica eletto dal popolo a suffragio universale diretto, dopo aver modificato l’assetto istituzionale in un semipresidenzialismo, ha ben affondato la presa sul suo partito della Giustizia e dello Sviluppo e sul Paese.

Nella vignetta, Erdogan: "Non è un addio, è soltanto un cambio di nome" Sulla lavagna "Primo Ministro: Ahmet Yayyip Erdogan"
Nella vignetta, Erdogan: “Non è un addio, è soltanto un cambio di nome”
Sulla lavagna “Primo Ministro: Ahmet Yayyip Erdogan”

Da un lato, Erdoğan stesso il giorno prima del passaggio a palazzo Cankaya – il palazzo presidenziale turco – nel congresso straordinario dell’AKP, ha dichiarato di non volere assolutamente abbandonare la guida e del partito e della nazione, anche in considerazione del fatto che il nuovo premier e segretario dell’AKP, Ahmet Davitoğlu, già ministro degli esteri nei governi del “sultano di Istanbul”, è visto dalla stampa turca e internazionale come un fantoccio nelle mani del Presidente.

Davitoğlu, va sottolineato, è uno degli esponenti della politica “neo-ottomana”, che vede nel glorioso passato di Ankara come potenza assoluta nel panorama mediorientale e islamico una sicura prospettiva per il futuro. Passato che, però, collima con due aspetti fondamentali dalla moderna Turchia: l’eredità kemalista, profondamente laica e secolare, occidentalizzante e moderna, e i negoziati di ingresso della nazione nell’Unione Europea. Per l’UE infatti, se prima Erdoğan sembrava l’uomo giusto e moderno alla guida del Paese – ricorderemo tutti le parole dell’ex premier Berlusconi sull’“amico Tayyip” e la rinnovata stima della Cancelliera tedesca Merkel nei suoi confronti – adesso la sua politica da “moderato neo-ottomano” viene vista come un inquietante viaggio nel tempo fra le glorie dell’impero: la commissaria europea agli affari interni Malmström ha guardato con timore il ritorno del velo islamico all’interno dell’unica Camera del governo di Ankara, un tempo fra le prime ad accogliere le donne in totale libertà e senza le imposizioni dei dogmi islamici radicali.

In tutto questo scenario di rinnovata potenza e dominio dell’opinione pubblica, dei mass media, della giustizia – la Corte Costituzionale e il Consiglio Superiore della Magistratura sono stati di fatto appaltati da Erdoğan – e dell’esercito – elemento assai condizionante nella politica turca, basti pensare che l’attuale costituzione è quella scritta dall’esercito nel 1982 a seguito dell’ennesimo colpo di stato e modificata dal governo Erdoğan con un referendum nel 2010 – le prospettive di rinascita del centro-sinistra laico e repubblicano sono molte: la guida del socialdemocratico Kemal Kılıçdaroğlu ha ottenuto il suo primo autogol dopo quattro anni decidendo di creare un fronte larghissimo con l’estrema destra per cercare di arginare l’avanzata dell’AKP. Considerando l’ottimo risultato del candidato curdo Demirtaş forse per il CHP sarebbe stato il caso spingersi ancora più a sinistra e non accontentarsi di (ri)vincere nelle regioni “rosse” della Tracia turca e dell’Egeo, tentando di riconquistare Istanbul, il più grande bacino di voti del Paese, sfruttando la controversa figura di Mustafa Sarıgül, popolarissimo ex sindaco di una delle municipalità di Istanbul e entrato in parlamento da giovanissimo, tanto che all’epoca fu il più giovane parlamentare eletto. Per la sinistra turca si prospettano tempi di confusione e riorganizzazione, soprattutto considerando che il sultano vuole arrivare almeno al 2023 per celebrare il centenario della nascita della Turchia Moderna.