Le riforme e le risostanze

E’ il nuovo ritornello nazionalpopolare, un po’ in quella timida border line che separa uno stanco ritornello da un mantra trito e ritrito: bisogna fare le riforme. Benissimo, e quindi? Se, per curiosità intellettuale, volessimo scoprire quale sia la definizione “tecnica” di riforma troveremmo: “Modificazione sostanziale, ma attuata con metodo non violento, di uno stato di cose, un’istituzione, un ordinamento, rispondente a varie necessità ma soprattutto a esigenze di rinnovamento e di adeguamento ai tempi”.

Ottimo: dunque stiamo parlando di una modificazione sostanziale di qualcosa. Nel nostro specifico caso, questo fantomatico qualcosa risponde al nome di “istituzioni e meccanismi funzionativi della rappresentanza politica”. Insomma, le tanto sbandierate riforme costituzionali ed elettorali. Normalmente saremmo con ogni probabilità portati a pensare che una simile “modificazione sostanziale” sia l’effetto concreto di un cambiamento di per sé già presente – o quantomeno in procinto di manifestarsi – nelle corde vocali della società.

Invece, a quanto pare, in Italia al giorno d’oggi le riforme assomigliano a una nebulosa di carattere quasi esclusivamente e squisitamente folkloristico. Già, perché se tu (tu, caro governo) decidi di occuparti dell’assetto istituzionale dello Stato o, ad esempio, del rapporto tra potere centrale e enti locali, dovresti farlo su una base ben determinata. Perchè andare a zonzo, propagandando motivazioni risibili come  – oggi si sente un po’ di meno, ma qualche settimana fa era un format a dir poco inflazionato – un certo risparmio economico (per quanto importante), non solo è un fattore di ulteriore indebolimento della credibilità delle istituzioni democratiche ma suona anche come un giochino di palazzo per allungare il brodo o, se va bene, per farsi propaganda in vista di qualche futura tornata elettorale.

La questione delle riforme allora si potrebbe riscrivere in un’unica domanda: le riforme sono davvero “modificazioni sostanziali” di uno status quo oppure finiscono per essere solamente delle riforme di facciata, dei cambiamenti per modo di dire, dei restyling del tutto privi di concretezza e sostanza? Allora non sarebbe il caso di parlare non più di riforme, quanto piuttosto – con una forzatura linguistica alquanto imperdonabile – di “risostanze”?

Già, non sarebbe forse il caso di usare sincerità nel modo di esprimersi verso i cittadini? Sì, c’è un piccolo grande problema: le riforme sono cose facili da annunciare e, teoricamente, anche da fare; le risostanze, invece, rischiano di essere più complesse, meno spettacolari: necessitano passaggi consequenziali, a partire da un’analisi critica del funzionamento di questa o quella istituzione, di questo o quel meccanismo per finire a una visione di innovazione e cambiamento che non si limiti al breve periodo ma possa avere effetti anche nel medio e lungo periodo.

Un cambiamento di prospettiva di non poco conto; un cambiamento che, a quanto pare – ma pare che nessuno ne faccia uno scandalo – è alquanto ignoto alle classi dirigenti italiane e, nello specifico, agli organi di governo.

Un esempio del rischio di fare delle riforme privandole di sostanza concreta è quello ormai universalmente noto delle regioni: siamo passati, nel giro di quindici anni, da uno Stato decentralizzato (così come previsto dall’originale testo costituzionale del 1948) a uno Stato regionale (o federal-regionale, messo in piedi dalle riforme del 1999 e 2001) e ora stiamo per approdare – o tornare indietro, stile gioco dell’oca – a una nuova riforma dell’assetto regionale e, in generale, degli enti locali. E’ un esempio che dimostra – al di là delle specifiche propensioni personali – l’inutilità totale di riforme fatte senza una netta analisi critica, comprensiva di cause, effetti e – se non è chiedere troppo – effetti collaterali.