#Europa al bivio, un secolo dopo la Grande Guerra

Il 28 giugno 2014 scoccherà il tristissimo centenario di una delle più grandi catastrofi dell’umanità, di quelle che segnano in modo netto e definitivo la differenza tra ciò che c’era prima e il mondo per come esso sarebbe stato dopo. La Prima guerra mondiale, lacerante nella sua portata, è stata l’esempio maggiormente realizzato della potenziale distruttibilità dell’uomo stesso. Non solo delle città, degli uomini intesi come singoli individui o delle famiglie, milioni di famiglie dilaniate; c’è stato, nella Grande Guerra, un fattore in più: per la prima volta l’uomo in quanto essere umano ha abdicato; un’abdicazione mentale e culturale prima ancora che logistico-materiale.

L’uomo di ferrola macchina infernale che ha il proprio senso e il proprio funzionamento non all’interno dell’uomo, ma al di fuori di esso, è forse questa la novità che più di ogni altra ha segnato quella guerra che da tanti, troppi, voluta, attesa, sostenuta.

La questione su cui sarebbe il caso di concentrarci, a distanza di un secolo pienissimo e in cui il mondo è mutato come mai prima in un così “breve” lasso temporale, è la seguente: quanto è diffusa la conoscenza di quegli avvenimenti, di quel mondo, di quei disastri immani, di quella cieca follia che portò il mondo – e l’Europa nella fattispecie – in una condizione di povertà e barbarie senza precedenti? Nelle scuole, ad esempio, hanno i giovani europei gli strumenti adatti per poter capire le cause (che sono qualcosa di ben più profondo e diverso dai semplici “motivi”) scatenanti e caratterizzanti di quel conflitto? Un liceale italiano ha in mano le informazioni, i libri, le nozioni adatte a calare se stesso all’interno di un mondo completamente diverso da quello attuale e in cui, tuttavia, sussistono alcune sottili analogie con ciò che ancora oggi – o forse oggi più di ieri – viviamo?

Un mese prima di questo macabro ma non bypassabile anniversario, tra il 25 e il 28 maggio, tutti noi, 500 milioni di cittadini europei, saremo chiamati a definire l’indirizzo politico parlamentare dell’Unione Europea e, per la prima volta, la persona che presiederà la Commissione Europea: si tratta di una scelta importantissima, che segnerà profondamente la storia del nostro Continente.

Cento anni fatti di guerre devastanti, persecuzioni, dittature, guerre civili, camere a gas, ma anche di lotte di Liberazione, di democrazia, di Costituzioni, di progetti europeisti come quello, ancora inattuato, di Altiero Spinelli a Ventotene. Ecco, per uno strano giuoco delle parti tra i nostri singoli destini e la Storia (quella con la “S” maiuscola), tra l’inizio di quella guerra fanatica – e poi bisognerebbe ancora trovarne una che non lo sia – e le elezioni europee del 2014 passano esattamente cento anni.

Dimostreremo di avere imparato qualcosa da quella guerra, oppure continueremo, ancora una volta, a guardare in modo miope e astorico al nostro piccolo e rinsecchito orticello? Riusciremo ad avere, come europei, una visione ampia, strutturata, intelligente, ragionevole se non addirittura razionale della storia e dei destini di più di un quindicesimo dell’umanità?

La guerra del 1914-18 fu possibile a causa di due fattori essenzialmente ed esistenzialmente legati, tra loro intrinsecamente interconnessi: primo, l’incapacità dei governanti nazionali di gestire società sempre più complesse, in cui vi erano elementi nuovi come le “masse borghesi” e la nascita di movimenti operai sempre più forti e diffusi; secondo – diretta conseguenza del primo fattore – la genesi di soggetti politici e culturali che basavano la propria esistenza sul “reazionarismo rapido”: il mito della velocità, della forza, della macchina, di ciò che è ignoto, di ciò che sta dall’altra parte del dicotomico universo umano-inumano. E la tremenda somma di questi fattori portò, qualche anno dopo, a 700 mila morti in un’unica battaglia, quella tragica e indelebile battaglia di Verdun.

Tenere viva la memoria di ciò che è stato, è forse questa la chiave di volta per non ripiombare nell’orrore dell’inumano?