Viva l’Italia, viva il qualunquismo

Da un film che ha un titolo del genere ci si aspettava qualcosa in grado di creare scompiglio alla cinematografia mondiale e sancire la nascita di un nuovo cult movie. Vane speranze, sento di poter sussurrare, dopo averlo visto per cinque volte. Nelle righe seguenti, comunque, proverò a motivare il mio verdetto.

“Viva l’Italia” (ecco il titolo di una cocente delusione), il secondo impegno come regista cinematografico di Massimiliano Bruno (il primo fu “Nessuno mi può giudicare”) ha una sua imponente coralità incentrata sulle vicende della famiglia Spagnolo: padre (dis)onorevole corrotto, puttaniere volgare; madre tradita e genuina; figlia raccomandata e pessima come attrice; figlio dottore idealista e comunista che affronta i guai della malasanità; secondo figlio incapace e raccomandato. A questo nucleo familiare sono direttamente collegate altre figure: l’agente gay e disposto a lucrare su qualsiasi cosa; il teatrante (lo stesso regista) che fa satira sul nostro paese sbeffeggiando la Costituzione (“capolavoro di fantasia e umorismo”) con alle spalle le immagini di Berlinguer, Gramsci, Moro e Pertini; la guardia del corpo che potrebbe far l’attore se non vivesse nella patria dei leccaculi.

Tantissimi personaggi e tantissimi attori molto noti al pubblico. Non tutti all’altezza però, perché c’è chi si cala puntigliosamente nella parte (Placido, politico dal linguaggio sporco e scurrile e Rocco Papaleo, l’agente che si preoccupa di tener in piedi un’agenzia composta da persone improponibili) e chi patisce la propria incapacità di essere espressivo e di usare il corpo come strumento efficace per la recitazione (Gassman, Raoul Bova ed Ambra Angiolini, i tre figli Spagnolo).

Al di là di un deludente capitolo sulla recitazione, il film mostra una sceneggiatura debolissima. Perché infarcita di frasi ad effetto e al tempo stesso scontate (“io son ricco e passo avanti,lei è povera e si attacca al cazzo”), qualunquiste (“noi qui stiamo a fa’ l’inciucio come con la bicamerale, il compromesso storico”, non proprio due manovre politiche accomunate dallo stesso movente, ma questo forse al regista non interessa), di dialoghi scurrili, di allusioni ai favori sessuali (“sua figlia è bona, le si può dare una botta?”).

L’equilibrio filmico si rompe  quando il politico, dopo un malore, diventa sincero e cerca la redenzione. Placido è folgorato, esagera con la verità, dialoga con i figli che prima considerava merce e sprona tutti a tre affinché facciano qualcosa di buono. E in più,  parla al popolo affermando di essere guarito e pronto a mettersi a disposizione della magistratura, che tutti i politici fanno schifo e che bisognerebbe scrivere l’articolo 140 della Costituzione: “tutti hanno il diritto di conoscere la verità”.

Non voglio esimermi, come spererebbe questo ipotetico articolo costituzionale, dal pronunciare la mia personale e completa verità sul film. Con “Viva l’Italia”, mancata commedia dell’arte e fallito film di denuncia, si ride pochissimo attraverso battute già sentite, ma soprattutto trionfa il qualunquismo all’italiana. Fa tutto schifo, l’Italia è un paese di merda, tutti i politici sono bugiardi. Nel film abbonda la critica ad un sistema che è evidentemente marcio, ma lo spirito costruttivo degli autori è al minimo storico. Sono partiti con tanta ambizione, con il desiderio di raccontare l’Italia berlusconiana che non riusciamo a cambiare e alla fine hanno peccato di presunzione. I temi scottanti e meritevoli di attenzione erano talmente tanti che si è pensato bene di trattarli con un atteggiamento, scusate la ripetizione, troppo qualunquista. E mentre scorrono i titoli di coda, viene da domandarsi: cosa è stato servito al pubblico? Ripensandoci a mente fredda, vien da rispondere: un minestrone freddo dagli ingredienti teoricamente succosi ma mal-cotti (per esempio le musiche, da Daniele Silvestri a Mino Reitano); un’opera che ambiva a diramare  nuove maschere sociali ed ha finito col vendere stoffe bucate.

Il cinema può e deve abbattere il pregiudizio calandosi fino al midollo di una cosa con lo scopo di sputare fuori ogni escremento, creare altri mondi e una visione diversa sugli uomini e sulla vita, mostrare le nostre maschere in tutta la loro brutalità e intimità. Accadeva questo con i grandi della commedia all’Italiana (Monicelli, Risi). Loro potevano sbraitare e lamentarsi, ma mai perdevano il gusto per l’analisi mai banale e attenta dei costumi italici. Oggi, se molto commedie italiane (guai se in questo caso proprio io pecco di qualunquismo e faccio a meno di notare che Garrone, Sorrentino e Salvatores realizzano film migliori)  sposano i contenuti di “Viva l’Italia” e dei film di Parenti e Vanzina, si ha tanta voglia di sedersi in poltrona e rivedere i vecchi film dei nostri grandi maestri.