Con Rocky Balboa l’americanismo è merce di consumo

Per rendersi conto di quanto devastante sia l’effetto della saga cinematografica di Rocky Balboa, basta entrare in tante palestre, sedersi in un angolo e concentrarsi su ciò che dicono e ascoltano tanti aspiranti pugili. Le orecchie di un osservatore esterno saranno così scosse dal motto “non fa male, non fa male” e dal brano incitatorio “Eyes of the tiger”, meglio noto come “la canzone di Rocky”. Due elementi che hanno contribuito al successo di Sylvester Stallone, l’attore dalla mandibola d’acciaio che ha interpretato il pugile italo-americano Rocky Balboa. Dal punto di vista estetico e mediatico, i sei film della saga cosa ci hanno fatto vedere? Di cosa hanno parlato? Cosa sono stati in grado di costruire? Questione di gusto a parte, l’epopea stalloniana è viva nelle mente di tanti ragazzi e signori. Cinematograficamente discorrendo, esistono film sulla, e per la boxe qualitativamente superiori (Million Dollar Baby, Alì) ma a Stallone e ai produttori questa inferiorità non interessa. Perché con sei film hanno raggiunto il successo, costruendo con perspicacia l’icona di un uomo rispettato ed imitato e di una nazione che si eleva a modello di coraggio e bontà.

Dal primo episodio (1976) diretto da J.Avildsen e premiato con l’Oscar per il miglior film (Irwin Winkler e Robert Chartoff), la migliore regia e il miglior montaggio (Richard Halsey e Scott Conrad) sino all’ ultimo del 2006, il pubblico ha assistito alla scultura di un superuomo, che da povero diventa ricco e adorato grazie alla boxe, circondato da una moglie paziente (Adriana alias Talia Shire), da un allenatore affettuoso (Mickey alias Burgess Meredith), da un cognato imbranato (Paulie alias Burt Young) e da un figlio che prima vuole emularne la dote pugilistica e poi sopravvive senza sentire il peso del padre.

Nel corso di questa scultorea lavorazione, il protagonista fatica, si ferisce, vince, perde, si riscatta (seguendo il trito e ritrito schema hollywoodiano della seconda possibilità), si ammala, si batte contro Apollo Creed e ne diventa amico e consigliere, allena un suo ipotetico erede, dissangua contro Clubber e Ivan Drago (altro omone specializzato in film d’azione e di muscoli) e si innalza, dopo la vittoria sul russo, a finto mediatore pacifista tra l’America e l’Unione sovietica (frivolo il suo discorso: “se io posso cambiare, voi potete cambiare, tutto il mondo può cambiare”).

Sei film studiati a tavolino per vendere un prodotto e sperare che sia consumato su larga scala (questo è davvero accaduto). Più che opera d’arte, commercializzazione dell’arte. Stallone e produttori hanno centrato l’obiettivo che si erano prefissati. La loro propaganda è stata efficacissima, anche se una nobile arte è stata sporcata. Questo manipolo di gente dello spettacolo ha trasformato un uomo proveniente dalle classi più disagiate/attore modesto (che qualcuno ha accostato a Marlon Brando) in un modello di cieco patriottismo, infarcendo le sceneggiature di frasi ovvie e ad effetto, di corpi palestrati e sanguinanti disposti a spegnersi. Tutto si rapporta allo stile di vita all’americana tanto citato: padre di famiglia diligente, uomo forte e resistente, bandiera a stella e strisce come esempio di civiltà da innalzare in faccia ai cattivi. Perché i cattivi, che storicamente hanno commesso disumanità, sono sempre e solo gli altri.

Il Marchese del Grillo, in confronto al prototipo hollywoodiano, “…non vale proprio un cazzo!”