#Finanziamento pubblico: ultima spiaggia

Il finanziamento pubblico ai partiti è stato introdotto per la prima volta dalla legge Piccoli (195/1974) al fine di rimuovere le cause principali che avevano portato agli scandali Trabucchi del 1965 e Petroli del 1973, entrambi incentrati su un enorme finanziamento illecito ai partiti (DC, PSI, PSDI, PRI, PLI).

Nell’aprile 1993 il Referendum proposto dai Radicali portò all’abrogazione della legge con il 90,3% dei voti espressi. Risultato peraltro favorito e ingigantito nelle sue proporzioni dal clima di sfiducia derivante dallo scandalo di Tangentopoli. Nello stesso dicembre 1993 il Parlamento aggiorna, con la legge  515/1993, la già esistente legge sui rimborsi elettorali, definiti “contributo per le spese elettorali”, subito applicata in occasione delle elezioni del 27 marzo 1994, e reintroducendo di fatto una legge abrogata solo otto mesi prima.

Da quel momento i finanziamenti diretti e indiretti alle formazioni politiche si sono sempre più ingigantiti vuoi per l’adeguamento all’inflazione vuoi per estendere sempre più una risorsa teoricamente illimitata (3 miliardi di euro nell’arco di vent’anni, ha calcolato l’Espresso) utilissima per foraggiare clientelismi, voti di scambio, rimborsi fantomatici a personaggi alquanto dubbi e via discorrendo.

I primi passi verso una prima, sebbene tiepida, moderazione nei soldi dati ai partiti si ha con la legge del 5 luglio 2012, voluta dal governo Monti, consistente nel dimezzamento dei rimborsi totali (da 180 mln a 90). Ciò nonostante il voto politico del febbraio 2013 che ha grandemente premiato un movimento, il 5stelle, che dell’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti ha fatto la propria bandiera di lotta, ha dimostrato come il tema non sia affatto marginale nell’opinione politica degli italiani.

Ecco che si arriva ai giorni nostri, con la minaccia del Presidente Latta (ehm…scusate, intendevo Letta) di essere pronto a imporre al Parlamento una legge di abrogazione del finanziamento ai partiti. E, puntualmente, non si è fatta attendere l’ennesima rottura nella maggioranza. Pd e FI non riescono a trovare l’accordo in commissione Affari Costituzionali alla Camera.

La vera questione divisiva non è tanto il fatto che si debba superare il finanziamento pubblico ai partiti, quanto piuttosto la necessità di introdurre un tetto alle donazioni dei privati. Tetto che il Partito democratico, con un suo emendamento, chiede sia di massimo 100 mila euro annui al fine di impedire a un singolo di lanciare una vera OPA su un’organizzazione politica; emendamento che tuttavia a destra viene visto come il fumo negli occhi (basti pensare che, per esempio, solo in questo 2013 Silvio Berlusconi ha foraggiato il PdL con 15 milioni di euro).

Gli altri punti in discussione non sono propriamente delle cose da nulla: la scellerata proposta di depenalizzazione, presentata dai deputati forzisti, per il finanziamento illecito ai partiti (evidentemente ci si sono troppo affezionati) e, a ruota, la cosiddetta norma ‘salva Forza Italia’, riguardante l’accesso ai contributi da parte dei partiti che non si siano presentati alle ultime elezioni politiche.

Un primo dato politico c’è già: su questi tre temi non solo la maggioranza di governo è letteralmente spaccata, ma addirittura vi è una insolita compattezza fra tutti gli altri gruppi parlamentari nel rigettare in toto le vergognose proposte di FI. Risultato: l’ennesimo rinvio. E, come se non bastasse, anche le opposizioni sono divise: M5S propone una legge in cui gli unici finanziamenti siano quelli privati, con un tetto di 5.000 euro. SEL appoggia la proposta del PD, chiedendo tuttavia l’inserimento di un emendamento che impedisca ai condannati per corruzione e/o frode fiscale di dare soldi a un partito. La Lega invece…non pervenuta (ma magari domani arrivano con la ramazza, stile Befana).

Il rinvio a data da destinarsi è scontato. Il problema vero è che una cosa che esiste in tutte le democrazie occidentali (il finanziamento pubblico, appunto) in Italia è diventato uno strumento di potere occulto nelle mani dei notabili di partito, mentre magari le sezioni nella provincia sono a mettere via euro su euro. E’ questo il paradosso: il sostegno pubblico alle associazioni politiche dovrebbe essere usato a fini partecipativi, per rendere possibile l’avvicinamento dei partiti ai territori, per incrementare la partecipazione politica; invece qui va nel senso opposto.

A questo punto ci troviamo di fronte a una necessità di radicale moralizzazione dei costumi della politica. Chissà che la necessità di trovare risorse dai privati non sia un buon metodo per far svegliare i partiti dal torpore criminal-assistenzialistico in cui si sono da tempo rifugiati. Chissà che la necessità di riscoprire la bellezza di un banchetto sotto la neve o con 40 gradi all’ombra non possa essere uno strumento di scardinamento di questo vergognoso stato di cose attuale. Chissà se, magari, un segno forte di dieta dei partiti, di distacco dal dio denaro, non sia lo strumento giusto per riavvicinare la partecipazione pubblica dal basso, con la passione, la semplicità e la bellezza che c’è nell’amare un ideale di progresso e di riscossa, non di intascare milioni di euro di soldi pubblici.