L’università che vorrei per i maturandi di oggi (e che non avranno)

Tempo di maturità, tempo di pensare al futuro: università, lavoro, disoccupazione molto più probabilmente. Non dovrebbero essere solo pensieri da diciottenni, ma anche e soprattutto da ministri e parlamentari anche se non vedo grandi prospettive di cambiamento in questa legislatura (figuriamoci se hanno qualche interesse per lavoro e formazione). Facendo un grosso in bocca al lupo a tutti i maturandi d’Italia provo comunque a suggerire a loro e al MIUR come dovrebbe essere l’università di domani.

Il 3+2
La riforma del 3+2, contrariamente a quello che si pensa troppo spesso, è stata, in teoria, una riforma prettamente burocratica, che doveva servire a rendere il più possibile omogeneo il mondo dell’educazione accademica in Europa. Cioè doveva innanzitutto permettere una semplificazione della mobilità dei lavoratori (ivi compresi i ricercatori) almeno all’interno dell’Unione Europea. Quello che è successo in Italia, ma non solo dopo l’introduzione del 3+2, è stato confondere la formazione accademica con l’ottenimento di titoli. La risposta politica è stata per lo più una pubblicità negativa nei confronti dell’università, ovvero è meglio non studiare che ottenere un inutile pezzo di carta. Facendo un giro all’estero il neolaureato italiano potrebbe invece accorgersi che la sua laurea non è un traguardo, ma un punto (certamente importante) del suo curriculum in continua costruzione.
Ai ragazzi quindi dico di non aspettarsi di diventare qualcuno dopo l’università, ma di impegnarsi piuttosto per gettare basi importanti per il loro futuro. Ai ministri e ai parlamentari invece suggerisco di adeguare finalmente i titoli alla tendenza europea (tradotto: levate quel titolo di dottore almeno dopo la triennale, per favore). Alle aziende infine dico che un ragazzo con una laurea non ha “perso tempo”, ha acquisito conoscenze e abilità che possono essere ampiamente sfruttate in un contesto aziendale. Avrà bisogno di farsi le ossa e di acquisire nuova esperienza, come tutti, ma non per questo investire tempo e denaro su di lui significa una perdita economica sicura.

I concorsi pubblici
L’Italia è uno dei pochissimi Paesi al mondo in cui si accede al dottorato tramite concorso pubblico ed è anche uno dei pochissimi (se non l’unico) in cui i cicli di dottorato hanno una precisa data di inizio e di fine, tanto che è praticamente impossibile iniziare un dottorato subito dopo la laurea (magari risparmiandosi un anno di attesa) o chiederne un prolungamento quando necessario. Il concorso è inoltre un forte deterrente per gli studenti stranieri, se non altro per le pesanti incombenze burocratiche che si devono affrontare anche solo per parteciparvi.
Il dottorato è un periodo di formazione post-laurea ma anche un’importante esperienza lavorativa, cui sarebbe più proficuo accedere mediante un colloquio coi responsabili della ricerca. In questo modo si potrebbe anche ridisegnare l’assetto dei finanziamenti. In alcuni Paesi, come la Germania, i gruppi di ricerca (che siano in ambito umanistico o scientifico) possono contare su budget definiti dalla loro attività. Gruppi migliori hanno più soldi da spendere per pagare i collaboratori (tra cui i dottorandi). Con un concorso pubblico invece si rischia di pagare lo stipendio di un giovane ricercatore in un gruppo che in un altro contesto non meriterebbe quel finanziamento.  Spesso capita anche che i neolaureati siano spaventati dall’idea di intraprendere un percorso di formazione post-laurea, magari perché non vedono sbocchi lavorativi successivi. In realtà, come si vede da questo documento (fonte MIUR) la quasi totalità degli assegnisti di ricerca non continua la propria carriera all’interno dell’università. L’Unione Europea ha recentemente spinto molto affinché si desse importanza alla formazione post-laurea, veicolo necessario per lo sviluppo sociale e tecnologico della comunità. Di contro le borse di dottorato in Italia sono diminuite e, in proporzione alla popolazione, siamo di nuovo il Paese meno “titolato” in Europa.

Riportare a casa i cervelli in fuga
Continuo a pensare che questa sia la più grande bugia detta da chi, in politica, si occupa di educazione. La ricerca, umanistica o scientifica che sia, non è una proprietà “confinabile”, inevitabilmente coinvolge tutta la civiltà umana. Io consiglio ai maturandi di oggi di viaggiare molto e di lavorare all’estero, anche se non ne hanno la necessità. Anche se non decideranno di essere filosofi o matematici, ma operai e carpentieri. Una permanenza più o meno lunga all’estero permette di acquisire quelle conoscenze che non sempre si trovano nella propria città o nel proprio Paese. Di contro il Ministero, con i vari Politecnici e le diverse Università, dovrebbe mobilitarsi per offrire corsi in inglese: l’italiano è una lingua tremendamente difficile per uno straniero (e anche per alcuni italiani…), pensare che un cinese o un tedesco possano essere attirati da un corso di farmacologia interamente in italiano mi pare lungimirante quanto Veltroni.

Università per tutti
L’università non fa parte della scuola dell’obbligo, ma secondo la nostra Costituzione

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Questo non significa che debbano essere eliminati i test d’ingresso (come ha proposto e propone qualcuno), soprattutto se si guarda alle questioni “logistiche” (disponibilità dei laboratori, di docenti, di aule, ecc…), piuttosto che l’impegno a mantenere trasparente il sistema delle borse di studio dovrebbe essere potenziato. Chiunque abbia frequentato l’università sa benissimo come funzionano le graduatorie ISEE e ISPE e sa benissimo come funzionano i controlli. Ma questo “potenziamento” rientra in una corposa riforma fiscale mirata a combattere l’evasione, cosa che non credo sia nemmeno nell’immaginario del governo delle larghe intese. La politica, e non da oggi, non ha il minimo interesse nel colmare il gap economico dell’accesso agli studi.

Su questo aspetto non posso che fare davvero tanti auguri ai futuri studenti e a un Paese che purtroppo trovo sempre più intellettualmente ed economicamente impoverito, per avere, fra le altre cose, impedito che anche l’operaio avesse il figlio dottore