L’eredità scomoda della Rivoluzione d’Ottobre

Sono trascorsi 95 anni e l’argomento, nella sua completezza storica e politica, è lontano dall’essere compreso. Quel che è certo è che come la Rivoluzione Francese anche quella Russa determinò un cambiamento radicale in tutto il mondo e non fu un caso fortuito, dovuto alla concomitanza con la Grande Guerra. Il comunismo (o marxismo, o leninismo, qualunque nome gli si voglia dare) diventò – e forse è tutt’ora – l’ago della bilancia delle relazioni internazionali e delle vicende politiche locali.

Al di là delle pur interessanti questioni storico-politiche, tra cui la sconfitta dei menscevichi (ragionevolmente considerati fra i padri della moderna socialdemocrazia), che richiederebbero pagine e pagine di dissertazione, credo che a quasi un secolo di distanza ci sia un nodo fondamentale da sciogliere per chi si dice o si sente comunista.

Non è giusto e non sarebbe produttivo cancellare quanto di eticamente e umanamente intollerabile è stato fatto dal regime successivo alla Rivoluzione. Ma trovo altrettanto sbagliato seppellire la portata storica e sociale del 7 Novembre 1917. Dietro ai Lenin e Trotsky c’era un popolo, di proporzioni immense, che credeva che una società diversa, radicalmente diversa da quella che aveva conosciuto per generazioni, fosse possibile.

Non è condizione sufficiente che una grossa fetta della popolazione sia alla disperazione, la Rivoluzione non è un fatto puramente sconclusionato che prima o poi accade, ha un obiettivo, una filosofia intrinseca e un preciso andamento. Nel caso del pensiero marxista-leninista è la via che inevitabilmente si deve seguire per sconfiggere il dispotismo capitalista.

Per la Sinistra italiana rinunciare in maniera definitiva al ricordo e all’analisi della Rivoluzione d’Ottobre, perché radicale e sanguinaria, può risultare estremamente deleterio. Significa togliere dignità storica a qualsiasi fatto violento, come se il beneficio che l’Europa (di ieri e di oggi) ha tratto dalla Rivoluzione Francese fosse annullabile dalla testa di Maria Antonietta (o da quelle di coloro che vennero definiti nemici della Rivoluzione). La Russia di 95 anni fa aveva avuto il coraggio di dichiararsi libera dal modus vivendi del resto del mondo, e non era poco.

La lezione bolscevica, pre e post rivoluzione è più chiara di quanto sembri. Le scuse, il negazionismo, il voltagabbanismo e le ritrattazioni di circostanza hanno fatto tanto bene ad alcuni personaggi nostrani della politica e del giornalismo, ma molto male alla classe dei lavoratori. Essere comunisti, o di sinistra, significa essere fermamente liberali ma non liberisti (e in questo ci aiuta la peculiarità della lingua italiana), essere democratici, ma non nei termini odierni

Queste restrizioni, eliminazioni, esclusioni, intralci per i poveri, sembrano minuti, soprattutto a coloro che non hanno mai conosciuto il bisogno e non hanno mai avvicinato le classi oppresse né la vita delle masse che le costituiscono (e sono i nove decimi, se non i novantanove centesimi dei pubblicisti e degli uomini politici borghesi), ma, sommate, queste restrizioni escludono i poveri dalla politica e dalla partecipazione attiva alla democrazia. Marx afferrò perfettamente questo tratto essenziale della democrazia capitalistica, quando, nella sua analisi della esperienza della Comune, disse: agli oppressi è permesso di decidere, una volta ogni qualche anno, quale fra i rappresentanti della classe dominante li rappresenterà e li opprimerà in Parlamento!

(Lenin, Stato e Rivoluzione)

essere pacifici e rispettosi delle idee altrui, ma rivoluzionari all’occorrenza, e coltivare il sogno (non l’utopia) di poter costruire una società giusta, egualitaria, libera. Una società comunista insomma, che il termine infastidisca o meno.