Il Coraggio di opporsi, lettera aperta a Giulio Cavalli

Caro Giulio,
ti scrivo questa lettera per raccontarti un triste fatto, l’ennesimo, accaduto nella mia amata Calabria.

Ero a San Lucido, il mio paese d’origine, a bere una birra con tutti i miei amici nella sera di Pasquetta. San Lucido è un paesino in provincia di Cosenza, uno di quelli interessati dalla serie di arresti dell’operazione “Tela del ragno” che ha portato dietro le sbarre 63 persone per omicidio e associazione a delinquere. Evidentemente 63 (di cui 2 proprio a San Lucido) sono stati pochi. Ieri ho assistito alla scena più brutta della mia vita. Ad un Far West di altri tempi, con l’unica differenza che non era, come poteva sembrare, un film in HD, ma realtà. Da non crederci.

Nel pub entrano dei loschi personaggi, dalla faccia cattiva. Ordinano una birra. Il locale, piccolo, era pieno e nessuno ci ha fatto molto caso, anche perchè la gente voleva solo divertirsi e star bene. Temporeggiano un po’, parlano in piedi davanti al bancone, finchè non entra un altro gruppo di ragazzi, una decina di persone, forse rivali, ed uno di loro si avvicina di scatto ad uno di quei personaggi e con un colpo di mano fa sbattere il boccale di birra dal bancone al muro del locale, rompendo il vetro di un quadro appeso, rompendo qualche bicchiere, creando una grossa paura e facendo scappare tutti i clienti.

Ad un certo punto i due gruppi si ritrovano fuori dal pub. Scatta la rissa: una quindicina di persone. Testate sui tavoli, pugni, calci e schiaffi, sedie per terra, uomini e tavoli contro le macchine. La paura di molti. L’indifferenza di altri. I locali intorno chiudono di fretta e furia. Il paese muore. Un mio amico chiama i carabinieri, ma loro si rifiutano di inviare una volante consigliandoci semplicemente di spostarci ed evitare si stare lì in mezzo. I due gruppi vanno via. Forse per prendersi in qualche altro posto. Magari con le pistole. La ragazza che gestisce il locale – una mia amica, una brava persona – scoppia in lacrime, impaurita. Indifesa.

I personaggi si conoscono. Sono sempre i soliti: un mafiosetto col soggiorno obbligato a San Lucido, due ragazzi usciti da poco di prigione per estorsione, ragazzini al loro seguito che “si fanno le ossa”, “senatori” e servitori che entrano ed escono dalla galera più forti di prima. Che pensano di avere il potere sui comuni mortali, sulla brava gente. Nessuno di loro è di San Lucido.

Sono, purtroppo, conosciuti perchè negli ultimi anni si è sentito parlare spesso di loro: sono quelli di “arancia meccanica”, che una volta hanno sparato alle finestre di una casa di notte, picchiando un uomo e una donna e stuprando la figlia; sono gli stessi che hanno pestato in gruppo il gestore di un locale; gli stessi che hanno raso al suolo un paesino in un giorno di festa; gli stessi che hanno pestato due ragazzi per il solo gusto di farlo.

La gente ieri è scappata e un paese ha chiuso a mezzanotte. Non riesco a capire come faccia la gente a restare così indifferente. In silenzio. A sopportare questi personaggi e la loro misera vita. Gente ignorante che fa ciò che vuole. Cani sciolti, che passano le serate ad ubriacarsi di prosecco senza pagare il conto e, quando lo fanno, tirando fuori grosse banconote da 50 o 100 euro.

E poi non resta niente di tutto ciò. Tutto viene dimenticato. Ma adesso, secondo me, è arrivato il momento di prendere coraggio e reagire.

C’è chi, addirittura, ha azzardato a dire che il problema sta nel fatto che questi personaggi non sono “controllati” da nessuno, visto che i boss sono tutti in galera e stanno cambiando gli equilibri. Io credo, invece, che il problema stia proprio nella mentalità di chi la pensa così: non è un boss che deve creare gli equilibri. Dobbiamo essere noi. Siamo noi a dover isolare questo schifo, siamo noi a dover urlare basta, senza restare in questa strana e stupida omertà.

Non c’è normalità in questi gesti. Non c’è normalità in queste persone. Dividere il bancone di un pub con un mafioso è una cosa che mi fa schifo. Rivendico il mio diritto di divertirmi, di stare bene, di essere pulito, di ritornare nel mio paese e godermi qualche giorno di tranquillità. Senza essere costretto a scappare. Se nessuno ne parla, nessuno mai saprà nulla.

Ho deciso di scrivere a te perchè sei un simbolo di coraggio. Perchè sei l’esempio vivente che non bisogna avere paura di parlare di ‘ndrangheta, non bisogna avere paura di reagire, di dire no. Non c’è bisogno di avere paura. Sono in molti nel mio paesino a non farcela più. Lo so. Lo si legge sulle loro facce e nei loro occhi. E anche se non parlano sono sicuro di interpretare il pensiero di ognuno di loro.

Senza voler fare l’eroe. Perchè opporsi, gridare, dire basta, non è un atto di eroismo. È la semplice normalità. La mafia e i mafiosi sono e resteranno sempre una montagna di merda.

Spero che un giorno tutti lo capiranno.

Con affetto e coraggio,

Federico Cimini