Il 2010 termina come il 2009: anche un anno fa, nel corso dell’anno, sembrava si fosse arrivati al capolinea del berlusconismo, con i media italiani e stranieri che impazzavano a suon di Topolanek, Noemi Letizia, senza contare le indiscrezioni raccontate da Assange su Wikileaks dei pareri delle diplomazie estere. Nell’agonia berlusconiana, il suo partito ha tenuto ben salde le posizioni elettorali. Analogamente oggi, con la dipartita di Fini e del suo gruppo, non solo è riuscito a strappare diverse regioni precedentemente amministrate dal centrosinistra nel voto di Marzo, ma è riuscito a tenere botta durante una crisi che pareva fosse il segnale della sua definitiva dipartita. Ma, come detto, così non è stato, dimostrando che la sua fine è ben lontana, e che quando sarà, deciderà lui come e quando.
Se Sparta piange, Atene di certo non ride si potrebbe dire, se allarghiamo il campo visivo alla sinistra, che si presenta al nuovo anno con diverse incognite. Il 2010 è stato un anno molto passivo per il PD, che ha saputo raccogliere titoli di giornale quando ha visto i suoi candidati alle primarie di coalizione sbaragliati dai candidati di SEL, composta prevalentemente da transfughi del Correntone mussiano e vendoliani di Rifondazione comunista. Il caso più eclatante è stato quello della sconfitta bis di Francesco Boccia, già candidato alle primarie per la Presidenza della Regione Puglia nel 2005, sconfitto ancora una volta da Vendola. Questo risultato ha scosso profondamente gli ambienti del PD, poiché ritenevano la Puglia come la base di partenza di un laboratorio politico che includeva il centro moderato come alleato su scala nazionale. La vittoria di Vendola ha posto la fine concreta di questo progetto, anche se c’è da dire che in molte regioni l’Udc era presente in una coalizione di centrosinistra (come in Piemonte, Liguria e Basilicata per citarne alcune). Sconfitta democrats a parte, Massimo D’Alema ha comunque imputato al suo partito la successiva vittoria del leader di Sel, poiché ha permesso che la candidata centrista Adriana Poli Bortone si schierasse come terzo incomodo e non in alleanza con Fitto e del centrodestra. Dati alla mano potrebbe pure aver avuto ragione, ma è complicato spiegare in politica i perché di tale scelta della coalizione centrista, dal momento che le alleanze sono state variabili regione per regione.
Il PD si è trovato a registrare lo smacco della sconfitta di Stefano Boeri alle primarie per il candidato sindaco di Milano. Anche qui i risvolti politici sono stati interessanti, poiché una vittoria della sinistra stava lasciando spazio a una candidatura terzopolista a firma Gabriele Albertini, già sindaco meneghino dal 97 al 2006, mischiando ancora una volta le carte in tavola fra politica nazionale e politica locale. In questa occasione infatti, diversi esponenti del PD milanese rilanciavano l’ipotesi di rompere con la sinistra radicale e presentarsi con Albertini. Alla fine non se n’è fatto più nulla, ma l’elettorato era già in preda al disorientamento.
Dopo la crisi di governo, dei ribaltabili dipietristi, delle velleità di leadership di Vendola, il PD si ritrova ora una grana riguardo l’accordo sullo stabilimento di Mirafiori della Fiat, su cui Fassino ha detto che se fosse un operaio voterebbe sì al referendum, mentre la Fiom prepara scioperi. La prospettiva della sinistra italiana è sempre più incerta oecupa, non tanto per quello che dice, ma per chi lo dice, tenendo conto delle tante opinioni scostanti fra i vari leader e del messaggio che la base elettorale fatica a capire, sia per poca chiarezza, sia per manifesta sfiducia. E le prospettive mega-uliviste in vista di un Cln antiberlusconiano non appassionano e non coinvolgono. La sinistra elettoralmente è morta nel 2007 cona nascita del PD, che aveva il compito di superare una divisione ideologica novecentesca, con un restyling di simbologie e vecchie facce presentante con un brand più pulito, per una visione più riformista, di governo. Ha ottenuto l’opposto, come il riconsegnare il governo alla destra e, appunto, distruggere la sinistra italiana. In Europa, partiti come il Labour inglese o l’Spd tedesco hanno cambiato le facce e i temi, preservando simboli e nomi. Questi partiti sono riusciti a vincere più elezioni di fila (tre volte il Labour di Blair, due volte l’Spd di Schröder, senza contare la grande coalizione del 2005) senza dover cambiare le insegne delle loro sedi.
D’Alema diceva che in Italia ci si innamora sempre dei leader stranieri: prima Kennedy, poi Blair, in seguito Zapatero e infine Obama. Tutto questo detto nell’immancabile chiave cinica che contraddistingue il deputato gallipolino. Ma il problema sostanziale è un altro, ovvero che in Italia la sinistra non è stata in grado di seguire l’esempio dei colleghi europei e di oltreoceano, rinnovando le agende politiche e le facce nelle istituzioni, preservando contraddizioni ideologiche (come i rapporti non sempre chiari fra partito e sindacato) e relitti della I repubblica. In assenza di una vera “rivoluzione culturale”, mai fatta realmente neanche ai tempi della Bolognina, è futile parlare di un’alternativa a Berlusconi. Senza una vera prospettiva, è naturale che persino i più fedeli elettori di sinistra preferiscano votare altro per convinzione o per inviare segnali, o peggio preferiscano rimanere fra le mura domestiche il giorno delle elezioni. Vendola sembra il nuovo, ma dice le stesse cose che si dicevano i leader del Pds quando si apprestavano a togliere la Falce e Martello dal loro simbolo, e la compagine partitica che lo accompagna non è altro che un relitto politico della morente quercia diessina.
Il sincero augurio che posso rivolgere a tutti i leader è il seguente: date meno importanza alla forma, valutate di più la sostanza. In Europa così fan tutti, e così spesso riescono a governare.