#Brexit: la crisi per far nascere una nuova Europa

Questa mattina, per chi è andato a dormire, la notizia di tornare a un’Europa a 27 ha destato più preoccupazioni e ansie, che indifferenza. Soprattutto per le ripercussioni immediate che hanno scatenato un vero e proprio ciclone di effetti negativi sui mercati: da Tokyo che ha registrato un -8% a Parigi e Milano a – 11%, con le banche di tutto il mondo che hanno accusato ribassi a doppia cifra; la stessa sterlina ha toccato i minimi storici nel cambio col dollaro (con, peraltro, grande gioia di tutti coloro che devono andare in vacanza a Londra prossimamente). Perciò, nonostante la complessità del tema e gli innumerevoli argomenti collegati che integra, è doveroso analizzare la questione, tentando, soprattutto, un’analisi che vada oltre ai meri, per quanto significativi, dati economici. Si vedrà, si vedrà – dicono i mercati.

Se nell’immediato abbiamo assistito agli scossoni in borsa, oggi per chi atterra a Gatwick con EasyJet non cambia granché rispetto a ieri; infatti, essendo il referendum di ieri dalla natura consultiva, il Regno Unito non è automaticamente uscito dalla UE. Infatti, si aprirà ora la procedura di withdrawal dall’Unione Europea secondo l’art. 50 TUE, giungendo sciaguratamente ad applicare per la prima volta tale disposizione. Pertanto, il Regno Unito dovrà notificare la decisione di recedere al Consiglio Europeo per giungere poi a un accordo, con il coinvolgimento del Parlamento Europeo e del Consiglio, il quale firmerà poi tale accordo. Se è vero che di default dopo due anni i Trattati cesseranno di avere efficacia per il Regno Unito, è altrettanto vero che tale termine può essere prolungato dalle istituzioni europee; insomma, rimettendosi alla mera volontà politica dei soggetti coinvolti, potrebbe anche aprirsi uno scenario per cui le innumerevoli, per quanto legittime, concessioni offerte al Regno Unito nella sua storia da Stato Membro siano ora compensate da un accordo di recesso costoso e sofferto. Guardando alla realtà dei fatti, però, tale prospettiva sembra poco plausibile se rimessa alla forza istituzionale di Tusk; inoltre, sarà interessante anche valutare la nuova leadership britannica che guiderà i negoziati, considerando che il premier Cameron ha annunciato le sue dimissioni. Proprio Cameron; prima promotore di questo referendum quale mezzo di ricatto verso la UE; poi, ottenute le concessioni desiderate da Bruxelles, vittima del suo stesso piano; voleva diventare uno statista storico per il suo Paese, ma ha, invece, soltanto contribuito in modo rilevante a una crisi del sistema europeo che al momento non vede un punto di ripresa. Quelle stesse concessioni conquistate lo scorso febbraio sono state ora revocate congiuntamente dai quattro Presidenti della UE.
Con la Brexit l’establishment inglese ha regalato a una classe di detrattori politici, tanto pericolosi, quanto irrazionali, la possibilità di ottenere quanto favoleggiavano, senza bagnarli della responsabilità di una catastrofe.
Procedendo con ordine, sul fronte interno, bisogna rilevare una totale spaccatura in seno all’elettorato britannico. È uno scenario ben lontano dall’analogo referendum del 1976, quando, in un periodo storico decisamente diverso, la schiacciante maggioranza si pronunciò in favore dell’Europa; persino la Thatcher, non ancora iron lady, si pronunciò in tal sensscoziao. La spaccatura di cui si parlava può essere letta, come le immagini dimostrano, su due piani: da un lato, è evidente che la diversa percezione del sentimento europeista a seconda dell’area geografica, dall’altro è altrettanto palese come, in funzione della fascia d’età, e conseguentemente delle esperienze di vita, il giudizio cambi radicalmente. Per quanto riguarda il primo piano, i voti in Scozia e in Irlanda del Nord non lasciano spazio ad altre interpretazioni: in virtù di un sanguinoso passato, l’Europa è vista come uno spazio di apertura e di libertà. In queste terre la Brexit rinvigorisce ferocemente quel sentimento di indipendentismo, peraltro mai sopito. Conferme in tal senso sono date sia dalle dichiarazioni di Lazzaro Pietragnoli, sindaco di Camden, sia dalle iniziative del Sinn Féin per una riunificazione delle due Irlande. In netta sintonia col giudizio espresso da queste terre è anche il parere dei londinesi, i quali per il 75% si sono detti a favore del Remain. Pur avendo giocato un ruolo rilevante l’interesse della city in questo affaire, nessuno dubita che proprio l’atmosfera internazionale, cosmopolita e l’attitudine all’integrazione che da sempre hanno contraddistinto Londra siano stati gli elementi decisivi. Londra, infatti, è la dimostrazione più pregnante del progetto europeo: generazioni diverse, culture diverse e un’economia forte e dinamica si mescolano in un insieme eterogeneo e coerente. Evidentemente tutto ciò non è bastato a spegnere gli entuiasmi nazionalisti e totalmente ciechi in termini di lungimiranza. Sì, perché al di là dei sentimentalismi europeisti, nessun commentatore competente e intellettualmente onesto riconosce un ruolo di spicco nel panorama internazionale a un Regno Unito isolato. Siamo lontani dai tempi delle Regine Elisabetta I e Vittoria.

L’altro piano della spaccatura, invece, si riscontra a livello generazionale. Come l’immagine ben evidenzia, sono stati determinanti per il fronte del Leave i voti dei pensioetànati. È evidente che le classi più giovani sono profondamente influenzate dalla normalità europea di oggi, fatta, in primis, da una libertà di circolazione e di libera prestazione di
servizi da cui dipende gran parte della nostra vita quotidiana, con tutto lo story telling sull’Erasmus. Eppure, questa normalità è stata il frutto di un lungo processo, condotto sotto la spinta delle istituzioni senz’altro, ma promosso proprio da quelle generazioni che ieri hanno votato per il Leave. È questa seconda frattura quella più dolorosa, perché è proprio quella che maggiormente influirà in prospettiva futura. Un’intera generazione, che vede il proprio futuro nell’Unione Europea, è stata silenziata dal cieco nazionalismo.

Alzando ora lo sguardo al fronte europeo, sembra ragionevole concordare con la maggior parte dei commentatori: sul piano economico, dopo un’iniziale periodo di scossoni, si dovrebbe giungere a un nuovo equilibrio. Certo, delle perplessità sorgono sul mentre: quanto durerà? Che ripercussioni si verificheranno in termini di crescita e di debito?
Lasciando da parte il versante economico, però, l’aspetto che maggiormente angoscia è che, mentre gli agenti economici, per le loro complessità e per le loro capacità, sono in grado di affrontare le difficoltà del contesto, sul piano politico si registra una totale assenza di una progettualità comune per il futuro. La Brexit ha inferto una coltellata a un corpo senza una propria coscienza. Il discorso di questa mattina di Donald Tusk è stato emblematico; sembrava già pronto da tempo e lasciava trapelare un senso di rassegnazione delle istituzioni che è inaccettabile. Non si può accettare un processo di smantellamento del progetto europeo; non in questo momento. Lo stesso Mario Draghi, per quanto vincolato diligentemente al suo ruolo, col suo messaggio rassicurante ai mercati su un’assoluta capacità della BCE di replicare alla Brexit, lasciava presagire che nell’aria l’uscita del Regno Unito era più che avvertita. Eppure, a tutto ciò non è seguita una risposta fortemente europeista e unitaria. Renzi ha fatto lo gnorri, arrivando persino a mettere in dubbio la credibilità dei sondaggi inglesi (d’altronde, è noto che la scienza statistica muta al variare del luogo). Il duo Merkel – Hollande non è pervenuto. È, inoltre, mancato sul tema un dibattito europeo; per quanto fossero solo i cittadini britannici a votare, è innegabile che la questione sia, invece, di tutti noi: è europea. L’ultimo discorso europeista in terra europea è stato tenuto da Obama, recentemente in visita a Londra. Siamo davvero arrivati al punto per cui manca il concetto stesso di cittadinanza europea? Non si può nemmeno tacere del fatto che una delle conseguenze più minacciose della Brexit sia il pericoloso precedente che costituisce. Conseguentemente, si rinforzano le tendenze nazionaliste ed euroscettiche in tutta Europa, non tanto le cialtronate delle nostre parti o le pronte sparate della Le Pen, quanto soprattutto in Danimarca o nei Paesi Bassi (paese fondatore, peraltro); tanto che Nigel Farage e l’UKIP hanno prontamente sollecitato ad attivarsi i fieri popoli europei, quasi invocando una rinascita degli spiriti nazionali d’Europa.

Preferendo lasciare ad altre sedi le discussioni sulle conseguenze economiche della Brexit, è innegabile che si pone da tempo un problema legato al vuoto di progettualità politica comunitaria. A chi invoca l’inizio di un’Europa à la carte, prêt à porter, per cui ogni Stato sceglie la legislazione che più gli aggrada da un catalogo, ricordiamo che il modello europeo è così da qualche decennio; non è questo lo scenario che si apre, ma, anzi, è proprio quello che fino ad oggi si è imposto e che va mutato in un’ottica di maggiore integrazione, rifuggendo da qualsiasi spirale nazionalista, con ben salda in mente la meta da raggiungere. Tempo fa Altiero Spinelli ce lo ricordava: “La via da percorrere non è facile, né sicura. Ma deve essere percorsa, e lo sarà!”.

11 commenti su “#Brexit: la crisi per far nascere una nuova Europa”

  1. Voi europeisti mi sembrate quei disperati d’amore, che dopo la centesima volta che scoprono il partner con l’amante se ne escono con il 100esimo ultimatum.

    Ma cosa ancora dobbiamo aspettare? Non è bastata vedere la gestione della crisi? Non sono bastati i morti di fame che abbiamo fatto in Grecia? Non sono bastate le bastonate che le banche e la finanza hanno dato ai popoli?

    Il sogno è finito, svegliatevi.

  2. Nelle zone operaie il “Leave” ha trionfato. La maggior parte dei partiti e dei movimenti a sinistra del Labour Party ha sostenuto l’uscita, e lo stesso Labour, fatta eccezione per la robustissima ala liberal, ha condotto una campagna soft, ed infatti il “Remain” è stato asfaltato nei bacini elettorali laburisti. Difficile negare che la destra reazionaria sia riuscita a mettere il cappello su questo risultato, d’altronde era il loro obiettivo principale e lo hanno ottenuto. Tuttavia, andiamoci cauti con il solito spauracchio del nazionalismo. L’Unione Europea è stata respinta da milioni di lavoratori (17 mln contro i circa 4 mln, se non vado errato, che votarono Ukip alle Europee), e questo qualcosa vorrà pur dire. Tale modello di integrazione, pensato così fin dalle origini, si sta disintegrando. Non c’è da esultare, forse, ma nemmeno da stracciarsi le vesti; c’è semmai da assumere la guida del movimento e proporre l’alternativa socialista. Sotto il capitalismo, le istituzioni sovranazionali sono reazionarie quanto quelle nazionali

  3. Finita l’utopia del libero scambio. Tornano di attualità e per fortuna le lotte di classe. Altrochè la politica non conta piú nulla! Siamo all’inizio del fenomeno che governerà I prossimi 20 anni oltre 650 milioni di esseri umani che oggi vivono ormai si può a ragione già chiamare, ex Europa. Appunto disintegrazionismo processo irreversible, inarrestabile, indispensabile che salverà I popoli dalla morsa mortale del capitalismo.

  4. Mia figlia e mio genero risiedono in Francia da 5 anni, sono laureati, hanno trovato lavoro, si sono sposati e adesso hanno una bambina, io e mio marito andiamo spesso a trovarli. E’ questa l’Europa che ci piace, quella che ti da delle opportunità, i piagnistei lasciamoli stare!

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